sabato 10 novembre 2007

Era ieri




Tanti dei problemi che ho avuto in sessantacinque anni di la­voro li devo alla politica. Tutto è cominciato da quando ero un giovane redattore ordinario, poi inviato e direttore. I posti non li ho mai lasciati, mi hanno sempre cacciato, più o meno edu­catamente, e sempre con grande imbarazzo da parte dell'edi­tore, addirittura con la commozione di alcuni … L'accusa era sempre quella: Biagi è un comunista.
Forse de­luderò qualcuno e qualcuno, invece, sarà felice: non sono mai stato comunista, sono un vecchio socialista che è stato amico di Nenni e che ha creduto per tutta la vita che una società senza giustizia sociale non può essere una società democratica. Non ho sentito il bisogno di mandare neppure due righe di smenti­ta, mi sembrava una vigliaccheria. In fin dei conti, questa accu­sa che cosa voleva dire? Che mangiavo i bambini? Che ero con­tro chi stava al potere? Era una colpa assumere e poi difendere alcuni colleghi che erano iscritti al partito? Io non guardavo in tasca a nessuno, mi interessava la testa di chi lavorava con me. Ed è incredibile che quell'accusa mi abbia accompagnato fino a ottantadue anni quando, ancora una volta, ho pagato per le mie idee. È successo nella primavera del 2002.

Il pomeriggio del 18 aprile, come tutti i giorni, ero nella redazione de II Fatto insieme con i miei collaboratori, quando arrivò quell'agenzia che mi ha cambiato la vita.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, l'imprendito­re che tanto aveva fatto e detto per avermi alla sua corte, dalla Bulgaria, durante una conferenza stampa nel World Trade Center di Sofìa, la «Sapiente», guarda l'ironia della geografia, con il Primo ministro Simeone Sassonia Coburgo Gotha, accu­sò il collega Michele Santoro, il bravissimo comico Daniele Luttazzi e il sottoscritto: «La Rai tornerà a essere una tv pubbli­ca, cioè di tutti, cioè oggettiva, cioè non politica, cioè non partitica e non faziosa come è stata con l'occupazione militare del­la sinistra. L'uso fatto da Biagi, da quel... come si chiama? ah, Santoro, e da Luttazzi della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti è stato un uso criminoso. Preciso dovere di questa nuova dirigenza sia quello di non permettere più che questo avvenga. Ove cambiassero non c'è un problema ad personam, ma siccome non cambieranno...».

I telefoni cominciarono a squillare, tutte le testate cercava­no di avere da me un commento, una replica, il nostro fax e la nostra mail furono intasati di messaggi di solidarietà. Ricordo che avevamo appena registrato la puntata della sera, ma con Loris pensammo di sostituirla con la mia risposta al premier.
In un primo momento non ero d'accordo, non avevo mai utilizzato per me un programma, ma quello che mi convinse fu la seconda parte del discorso di Berlusconi, quella in cui di­ceva «Ove cambiassero...».

Gli risposi: «Da Sofia il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non trova di meglio che segnalare tre biechi indi­vidui, in ordine alfabetico: Biagi, Luttazzi, Santoro. Quale sa­rebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento al­la delinquenza, falso e diffamazione? Denunci. Poi il presiden­te Berlusconi, siccome non prevede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione - pur non avendo niente di persona­le - lascerebbe intendere, se ho capito bene, che dovrebbero togliere il disturbo.
Signor presidente Berlusconi, dia disposi­zioni di procedere perché la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri.
So­no ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spa­zio per la libertà di stampa. E ci sia perfino in questa azienda che, essendo proprio di tutti, come lei dice, vorrà sentire tutte le opinioni. Perché questo, Signor Presidente, è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un'occhiata, nella Costituzio­ne.
In America, ne avrà sentito parlare, Richard Nixon dovette lasciare la Casa Bianca per un'operazione chiamata Watergate, condotta da giovani cronisti alle dipendenze di quel grande e libero editore che era la signora Katherine Graham, proprietaria della Washington Post.
Questa, tra l'altro, viene presentata come televisione di Stato, anche se qualcuno tende a farla di governo, ma è il pubblico che giudica. Nove volte su dieci, con­trollare, II Fatto è la trasmissione più vista della Rai.
Lavoro qui dal 1961 e sono affezionato a questa azienda. Le voglio bene. Ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto, cioè i programmi, e chiede che due giornalisti, Bia­gi e Santoro, entrino nella categoria dei disoccupati. L'idea poi di cacciare il comico Luttazzi è più da impresario, quale lei è del resto, che da statista.
Cari telespettatori, questa potrebbe essere l'ultima puntata de II Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare al prezzo di certi patteggiamenti.

«Signor presidente Berlusconi, non tocca a lei licenziarmi. Penso che qualcuno mi accuserà di un uso personale del mio programma, ma ho voluto raccontare una storia che va al di là della mia trascurabile persona e che coinvolge un problema fondamentale: quello della libertà di espressione».

Era ieri
Enzo Biagi

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