Vengono chiamate favole, ma più spesso si tratta di fiabe.
Non so quale sia la situazione oggi, ma una volta si raccontavano ai più piccoli, così che mentre il bambino ascoltava rapito, il genitore, nel ripeterla, si accorgeva che ne stava capendo il reale significato soltanto in quel momento, a 15 - 20 anni di distanza da quando l’aveva sentita per la prima volta.
Di una fiaba si ricorda più agevolmente il finale, meglio che i singoli passaggi narrativi, forse per il fatto che generalmente la storia raccontata si risolve in un epilogo positivo e rassicurante.
Della favola, così attentamente congegnata da autori di tempi e profondità ormai lontane, sembra purtroppo interessare soltanto l'agognato finale.
E così, quando inizi a raccontare una storia a qualcuno che già la conosce, quello che fa? Ti dice: “Ah ma stai parlando di quella che finisce così e così, giusto?”
Il finale. Non c'è niente da fare, per individuare una storia tra le tante si fa istintivamente riferimento a come termina, tralasciando i passaggi intermedi come se fossero elementi secondari.
La mia occupazione (auto-conferitami in mancanza di più appassionanti distrazioni) quale pedante polemista, mi impone però di ragionare secondo uno schema in controtendenza.
Continuo a pensare che in una narrazione ciò che conta sia la storia, il suo svolgimento, a prescindere da come questa finisca.
Nessuno si sogna di limitare la lettura di un libro alle sue ultime tre pagine: il finale acquisisce consistenza e spessore soltanto dal momento in cui si è riusciti a cogliere e realizzare nella propria mente tutto ciò che lo precede.
Oppure, più tragicamente, di ricordarla soltanto.
"E vissero."
FINE
1 commento:
COMPLIMENTI, MOLTO BELLA LA TUA RIFLESSIONE!
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