mercoledì 25 aprile 2007

Il nuovo che avanza



"Oggi c'è una luce baltica," disse Enzo quando entrai in redazione. Puliva gli occhiali con un foglio di giornale e guardava dalla finestra con miope vaghezza, dietro il velo dei suoi cristallini infeltriti. La pila dei quotidiani, penco­lante come una babele cartacea sulla scrivania, portava già i segni del suo intervento: giornali stropicciati, ritagliati, ac­cartocciati, giornali penduli come tovaglie usate sopra i cas­setti aperti, e quelli di ieri in mezzo a quelli di oggi, come lattuga dimenticata nel frigo.

"C'è una luce baltica," disse di nuovo Enzo. Che amava ricevermi con una descrizione enfatica delle condizioni atmosferiche, interpretate come un perenne rimprovero del vasto mondo alla nostra angusta redazione. Baltico, dun­que, non era solo il ciclo della metropoli - per altro banal­mente cinerino e pregno di umide polveri industriali, come sempre -; baltico era l'umore di Enzo, che avrebbe voluto essere altrove, probabilmente su qualche deserto molo di Leningrado che anni prima lo aveva visto farneticare di li­bertà e leggerezza davanti all'enorme mare, e subito dopo dettare al giornale uno di quei suoi articoli così forti e cre­dibili proprio perché così oltraggiosamente privati.

Difatti Enzo condusse rapidamente a consunzione la propria cosiddetta carriera: fu rinnegato dal direttore per il suo pertinace rifiuto di consultare "i dati e le fonti", sem­brandogli già soverchia la fatica di schiodarsi dal cervello e dal cuore ciò che vedeva e sentiva. Era finito ad occuparsi, insieme a me, delle due paginette quotidiane denominate "Vivicittà": guida ragionata alla pulsante attività culturale, ricreativa e ludica della nostra metropoli.
Leggevo in silenzio, cercando vanamente di interpreta­re l'articolo di fondo del direttore, ricco di dati e di fonti. Dalla finestra biancheggiava la mediocre luce urbana. Chie­si a Enzo: "Hai pensato a mandare qualcuno al Museo della Calza?" Naturalmente non ci aveva pensato.

Il Museo della Calza apriva i battenti giusto quel po­meriggio. Era una delle tante iniziative del nuovo assessore al tempo libero, la cui evidente premura era impedire che il tempo di noi cittadini potesse realmente liberarsi da im­pegni e scadenze.
Un fiorire incessante di mostre e conve­gni, inaugurazioni e conferenze, dibattiti e rassegne prov­vedeva a riempire ogni possibile vacanza: perché tutto po­teva capitare, tranne che un angolo della nostra vita rima­nesse vuoto.
Allestito da un apposito manipolo di studiosi del costu­me, con l'assistenza economica di un celebre sarto (quel Mineo già inventore della scarpa-calza e del monopantalo­ne), il Museo della Calza occupava cinque o sei locali della Galleria d'Arte Moderna. La grande idea era che le calze fossero indossate non solo dai manichini dello scultore trans-sintentico Kelvin Lubin, ma anche da modelle e mo­delli vivi, almeno in apparenza.

Sapevo che l'acida acrimonia per quel genere di cose, da me condivisa e incoraggiata, conviveva, in Enzo, con il fermo desiderio di nuocere giorno per giorno al prestigio e alla sensatezza delle nostre due paginette, aprendole gene­rosamente a quanto di peggio ci accadeva intorno. Il Museo della Calza avrebbe dunque avuto, per la dolosa malevolen­za di Enzo, il massimo rilievo sul nostro giornale.
Il giorno prima, del resto, Enzo aveva voluto dedicare il titolo più importante al nuovo negozio di oggetti di tartaru­ga aperto in centro, "La lepre sconfitta". Sull'ospedale degli abat-jours, dove si riparavano lampade di qualunque tipo, Enzo aveva fatto scrivere addirittura tre articoli; era perso­nalmente intervenuto all'inaugurazione della Casa della Liquerizia; e aveva affidato una rubrica quotidiana alla famo­sa Kumella, astrologa dell'orecchio nonché autrice di un importante volume sulla psicoterapia dei gatti, conosciuta e subito ingaggiata in occasione del convegno internazionale sulle discipline eterodosse.

"Il Museo della Calza è importante", ghignò Enzo acca­rezzandosi il mento. Capii subito che la luce baltica era per il momento dimenticata, in favore della quotidiana azione devastatrice che con tanta allegra cura provvedevamo ad in­fliggere al giornale. Con grande soddisfazione, per giunta, del direttore, i cui convinti elogi alla vivacità culturale delle due pagine a noi affidate aggiungevano ulteriore sapore alla nostra scellerata minestra.
Considerammo rapidamente l'opportunità di fare posto al Museo della Calza spostando in seconda pagina la rubri­ca di Kumella, l'intervista all'architetto Cornieti sulla furen­te polemica in corso a proposito del colore delle sedie sco­lastiche, il servizio sulle sfilate di cuffie da bagno e addirit­tura l'articolo di Albino Scuteri - grande firma del giornale - sulla nuova chiesa aperta vicino all'aeroporto dalla Coca Cola, con il campanile a forma di lattina.
"Spostiamo anche Scuteri in seconda?", chiesi preoccu­pato a Enzo.
"Anche Scuteri"
"Non l'abbiamo mai fatto."
"C'è sempre una prima volta. Scuteri lo convinco io".
"E la Coca Cola?"
"Che c'entra la Coca Cola?"
"È il nostro principale cliente pubblicitario."
"Chi se ne frega."

Enzo decise che l'intervista a Kevin Lubin, mago dei manichini, l'avrei fatta io. A Mara Ginco, esperta di moda, l'articolo di colore. Una praticante, probabilmente Cerasio Giada, si sarebbe occupata dell'articolo di cronaca.
"Cerasio Giada?", chiesi sgomento a Enzo.
"È la più adatta", rispose l'infame.
"Non ti sembra un po' troppo?"
"Per il Museo della Calza, questo e altro."

Cerasio Giada si era presentata pochi mesi prima in re­dazione, fortemente raccomandata da un caporedattore che l'aveva avuta come allieva alla scuola di giornalismo, non senza proficue ripetizioni in occasione di un week-end al mare.
Piuttosto adorna di giovanile bellezza, Cerasio Giada parlava ad altissima voce, come se fosse perennemente so­praffatta dall'inaspettato peso delle parole, e i discorsi le franavano intorno come una pila di piatti sfuggiti a un ca­meriere. Terminare le frasi non faceva parte non dico del suo bagaglio culturale, ma proprio delle sue esigenze: pro­nunciava con sommaria esuberanza le tre o quattro parole necessarie all'allestimento di un discorso, lasciando poi agli interlocutori il compito di riordinarle e, solo se indispensa­bile, di chiarirne il senso.
Ma soprattutto Cerasio Giada ci si era manifestata di­cendo "Piacere Cerasio Giada", dando modo a Enzo e a me di intraprendere una delle nostre tipiche discussioni: se fosse più grave presentarsi dicendo piacere, o anteporre il cognome al nome, o semplicemente chiamarsi Giada. Anche i primi articoli che sottopose alla nostra ansiosa curiosi­tà erano firmati Cerasio Giada; e Enzo, non nuovo a simili atrocità, si guardò bene dall'invertire i due pezzi della fir­ma. Sul giornale usciva sempre la firma Cerasio Giada: e mai nessuno, come Enzo aveva previsto, se ne lamentò, ri­tenendo, forse, che Cerasio fosse un nome maschile strava­gante e Giada il cognome, oppure che si trattasse di una studiata licenza, gravida di acuti ammiccamenti a un gior­nalismo anticonvenzionale.

Gli articoli di Cerasio Giada erano, a leggerli, quasi ru­morosi come l'originale. Le parole vi si accalcavano come una spensierata comitiva di amici, i punti e le virgole rotola­vano a casaccio tra una frase e l'altra come ciottoli scalciati, i gerundi tentavano, come vigili urbani, di riportare ordine ma aggravavano irreparabilmente la situazione.
Pure Cerasio Giada era da noi ben considerata: non so­lo perché nuoceva in modo decisivo al livello delle nostre pagine; anche perché affrontava qualunque argomento con un entusiasmo quasi commovente, sembrandogli sempre e comunque straordinario il febbrile attivismo della metropo­li e del tutto superfluo trovarne un bandolo o un significa­to. Al punto che - anche se non l'avremmo mai ammesso -la sua prosa delirante e felice finiva per lenire un poco il nostro cinismo e la nostra totale disillusione.
Cerasio Giada sarebbe andata al Museo della Calza come Hemingway a Cuba, questo era il punto. E noi sapevamo benissimo che il conclamato spasso che ci avrebbe procurato il suo articolo si sarebbe accompagnato, anche, a un'inconfessabile invidia per la sua capacità di trovare utile in sé, senza bisogno di giudizio alcuno, ciò che a noi appariva dolorosamente sce­mo.

Venne convocata per telefono. Si presentò con una ma­glietta arancione firmata dal sarto Mineo. "Sei sempre at­tenta alla notizia," sorrise Enzo. "Mi raccomando di intervistare il sindaco, gli intellettuali e il sarto Mineo, che è l'anfitrione."
"Anfitrione?", disse Cerasio e subito rise, abituata alle incomprensibili battute di Enzo.
Partì in motorino per la Galleria d'Arte Moderna, non senza che Enzo l'avesse ulte­riormente istruita: "Non dimenticare che il piede è fallico e la calza lo contiene. Questa è una pagina culturale."

Il pomeriggio ci permise, come sempre, di compilare con consumata abilità le nostre due pagine. Venne Kumella con la rubrica, dedicata, quel giorno, al rapporto tra Urano e il ciclo mestruale. Telefonai a Kevin Lubin che mi spiegò come i manichini siano una metafora della catalessi, poiché l'uomo non è mai del tutto vivo e mai interamente morto; poi citò le mummie egiziane, gli zombi e le statue etrusche, a me veniva in mente solo l'Upim ma non glielo dissi per non perdere tempo.
Poco dopo arrivò il pezzo di colore della Mara Ginco; mancava solo l'articolo di Cerasio Giada. Enzo andò a bere un caffè, tornò e si rimise, in piedi, a guardare il ciclo dalla finestra. Fumavo e cercavo di leggere i giornali, sapevo che stava per ricominciare a parlare della luce baltica e lo fece. "A Leningrado c'è un posto dove non c'è nulla. È davanti all'albergo Pribaltiskaya. Un piazzale immenso, di grosse pietre grige, davanti al mare. Non ci sono alberi, non ci so­no panchine, non ci sono persone, non c'è assolutamente niente. Si cammina per ore in lungo e in largo, ci sono solo il piazzale, il ciclo e il mare."
Lo lasciavo sempre dire, i suoi discorsi alla finestra era­no, dopotutto, una tregua patetica ma legittima in tutto quel rincorrersi di notizie fatue e articoletti queruli. Rim­pinzati di cose, e rimpinzandone per vendetta i lettori, noi si desiderava sopra ogni cosa il silenzio e il vuoto.
"Non ho mai visto niente di più bello di quel vuoto," disse ancora Enzo, "c'era un gran vento, il freddo pulitissimo, e mi accadde di fare questo gioco: mi mettevo ad un capo del piaz­zale, per esempio quello in bilico sul Baltico, e ci restavo per un minuto o due. Poi camminavo all'altro capo, fin sot­to l'albergo di vetro, e riguardavo il punto esatto dove ero stato in piedi. Fino a che non mi pareva di vedermici. Ci sono stato una mattina intera, davanti al Pribaltiskaya, e ho contato le pietre del selciato, settecentotredici dall'albergo al mare, quasi un chilometro di spazio deserto. Non è pas­sato nessuno."

Erano quasi le otto quando tornò la nostra inviata, na­turalmente entusiasta. Si mise a sedere alla scrivania dei collaboratori e accese il video. Battè velocemente il suo arti­colo, si alzò, estrasse da una enorme borsa del sarto Mineo due paia di calze omaggio e ce le regalò. Ci mise in mano la sua opera e se ne andò.
Così diceva l'articolo di Cerasio Giada:

"Da oggi anche la nostra città si annovera tra le città di livello europeo in maniera sempre più cospicua, con il pa­trocinio del sarto di fama europea ed extraeuropea Sabati­no Mineo, grazie al nuovo Museo della Calza con il propo­sito di valorizzare meglio la storia e il valore di questo pre­zioso accessorio, inaugurato dal sindaco alla presenza di molti operatori economici e studiosi del fenomeno.

Chi non ha mai affidato alle calze il compito di valorizzare meglio la propria personalità, affidandogli messaggi vuoi scherzosi vuoi erotici, vuoi la semplice igiene e decoro come simboli riconosciuti di un raggiunto benessere? Lo notava nella simpatica inaugurazione, alla Galleria d'Arte Moderna per l'occasione gremita di una folla assiepata di simpatizzanti e curiosi, il sindaco in persona, accorso all'inaugurazione in segno di profonda comprensione per tutta quella serie di fenomeni che fanno parte, ormai, della cultura di una collettività.

Mostrando scherzosamente i calzini blu, simpatica­mente definiti 'calzini da sindaco', il sindaco ha anche ap­profondito gli aspetti economici e commerciali del compar­to, che manichini del celebre scultore Lubin Kevin e mo­delli in carne e ossa, donne ma anche uomini entrambi di grande esperienza nella moda, portavano con naturalezza.
Favolosa la serie di calze da passeggio della Leasure, antisu­dore, le non-calze della stilista Barbara Menocchio, i collant ecologici di fibra di crusca, il gambaletto tanto in voga negli anni del femminismo tanto fiero del simbolo degli zoccoli come maniera per liberare il piede (simbolo fallico per ec­cellenza). 'Il piede come simbolo fallico? Ma tutto il corpo è un simbolo fallico/ ha detto il semiologo Cherlasco. 'È tutto molto interessante', dicevano in coro i visitatori da­vanti ai reperti, chi rimpiangendo la vecchia calza elegante di filanca o di lana leggera che faceva mostra di sé presso i piedi di alcuni dei modelli, chi ammirando le nuovissime creature della moda moderna, in seta e in altre impalpabili materie che designano comunque la voglia di movimento e di indipendenza di un'intera società.

'Sono felice di - ci ha rilasciato il sarto Sabatino Mineo, scherzosamente da qualcuno definito anfitrione - essere l'artefice della valorizzazione di un accessorio trascurato co­me la calza', alla Mostra era allegato un apposito catalogo con prefazione di Agostino Cherlasco e alcuni modelli, co­me i sottoscarpe napoleonici o addirittura precedenti, pur­troppo non disponibili per l'indisponibilità del favoloso Museo dell'Abbigliamento di Parigi.
'A partire dal - scrive Cherlasco nella prefazione - se­colo ventesimo, il piede come segno e come allusione ha cessato di essere veicolo di sofferenza/punizione, costrizione/nascondimento.'
'Dal piede nudo della Vergine che schiaccia il serpente al piede flessuoso e diversamente vindice delle adolescenti del Duemila, che Mineo ha saputo genialmente rivestire con i semicollant trasparenti della linea Eden, corre come una rivelazione libertaria e definitiva, vanamente costretta e compressa, nei secoli, dal terrore del piede come terrore del fallo.'

Una conferma, dunque, che il piede è veramente fallico: in proposito si terrà un convegno nella sala Mineo, con la partecipazione di numerosi esperti, e una curiosità per finire: la Mostra della Calza è itinerante e prossima­mente la prima tappa sarà a Leningrado, dove è stato alle­stito, essendo un segno delle nuove aperture sovietiche al­l'occidente, un grande padiglione sul piazzale dell'Hotel Pribaltiskaya".
Cerasio Giada

Lessi per primo il pezzo, e quando arrivai alle ultime ri­ghe non sapevo che fare.
Enzo, ignaro di tutto, mi guardava con un sorriso ingordo, godendosi i miei accenni di sghi­gnazzo e pregustando la lettura del nuovo capolavoro di Cerasio. Era quasi notte, e bisognava sbrigarsi. "Mando in tipografia?", chiesi facendo finta di nulla. "No, perché? Lo voglio leggere anch'io."
Dissi ancora: "Non c'è niente di interessante, solita ro­ba." "Come non c'è niente di interessante? Non è possibi­le! Cerasio è geniale, il Museo della Calza fondamentale, non può che essere un articolo straordinario. Dai qua."

Glielo diedi, pensando che tanto lo avrebbe letto più tardi in tipografia, o l'indomani sul giornale. E mi chiede­vo, intanto, perché risparmiargli quella stupida notizia, do­potutto un piccolo sputo in più in una vecchia e ben nota palude.
Non ci eravamo mai risparmiati niente, nessun ol­traggio all'intelligenza andava mai sprecato, nemmeno una briciola della demenza onnivora che governa la nostra me­tropoli europea era scampata al nostro assaggio, che im­portava se il Museo della Calza sarebbe andato ad occupare il mitico piazzale vuoto di Enzo a Leningrado?
Prima o poi, pensavo, tutto sarebbe diventato un solo, immenso Museo della Calza, Cerasio Giada sarebbe stata assunta, "Vivicittà" avrebbe raddoppiato le sue pagine, perché farne una tragedia?
Se di tragedia si trattava, era già accaduta, irrepa­rabilmente, molto tempo prima, mentre Enzo se ne stava in giro per il mondo, io ero un giovane pieno di ambizioni e leggevo i suoi articoli con emozione e reverenza.

Pure, non mi riusciva di considerare l'incidente come uno dei tanti, e aspettavo che Enzo arrivasse alle poche ri­ghe finali con un senso di imbarazzo e di pena: due senti­menti che credevo di non saper più provare. Mi chiedevo in quale modo scherzoso sottrarre Enzo all'irreparabile di­sastro che stava per colpirlo, ma non mi veniva in mente nulla.

Enzo terminò impassibile di leggere l'articolo. Lo riles­se tutto e non diceva niente. Si alzò, prese a guardare la notte con le braccia dietro la schiena.
Quando tornò a sede­re, prese in mano l'articolo, corresse gli errori di sintassi più grossolani, fece il titolo ("Dimmi che calze hai e ti dirò chi sei") e mandò tutto in tipografia.

Chiesi: "Te la sei presa?"

Tornò alla finestra, fissò lo sguardo nel buio e disse:
"Sembra la notte di Edimburgo."


Davanti al Baltico
Il nuovo che avanza
Michele Serra

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un geniale emulo inconsapevole di Cerasio Giada (per profondità di pensiero e uso del linguaggio) ha lasciato oggi un segno durevole sulle pagine di corriere.it

http://www.corriere.it/vivimilano/ore_piccole/articoli/2007/12_Dicembre/05/pixel_chupito.shtml