martedì 28 novembre 2006

Tagliare la corda, l'unica cosa coraggiosa da fare


Carta dell'Iraq

Faccio una traduzione piuttosto libera di ciò che oggi ha scritto Michael Moore a proposito dell'Iraq. Vi prego di mandare suggerimenti o correzioni, se lo desiderate.


Amici,

A partire da ieri possiamo dire che siamo stati in Iraq più a lungo di quanto siamo stati impegnati nella Seconda Guerra Mondiale.

È giusto. Siamo riusciti a sconfiggere la Germania nazista, Mussolini e tutto l’impero giapponese in MENO tempo di quanto sia necessario all’unica superpotenza mondiale per rendere sicura la strada dall’aeroporto al centro di Baghdad.

E veramente QUESTO non l’abbiamo ancora fatto. Dopo 1.347 giorni, nello stesso tempo che abbiamo impiegato per attraversare il Nord Africa, ripulire le spiagge italiane, conquistare il Sud Pacifico, e liberare tutta l’Europa dell’Est, noi non riusciamo, dopo 3 anni e mezzo, a prendere anche soltanto una strada e proteggere i nostri da un ordigno fatto in casa, composto da due lattine e piazzato in una buca. Non stupisce che la tariffa di un taxi per andare dall’aeroporto a Baghdad adesso si aggira intorno ai 35.000 dollari per un viaggio di 25 minuti. E non include nemmeno un c..o di elmetto.

Questo totale fallimento è forse da imputare alle nostre truppe? Difficilmente. Perché nessuna quantità di truppe o di elicotteri o di democrazia sparata dalla canna di una pistola è mai partita per “vincere” la guerra in Iraq. È una guerra persa; persa perché non ha mai avuto il diritto di essere vinta; persa perché è stata iniziata da un uomo che non è mai stato in guerra, un uomo che si nasconde dietro agli altri mandati a combattere e morire.

Sentiamo ciò che dicono gli iracheni, stando ad una recente indagine condotta dall'Università del Meryland:

** 71% degli iracheni vuole che gli USA escano dall'Iraq

** 61% degli iracheni APPROVA gli attacchi alle truppe USA

Si, la stragrande maggioranza dei cittadini iracheni crede che i nostri soldati debbano essere uccisi! Quindi che diavolo stiamo facendo ancora lì?

Ci sono molti modi per liberare un paese. Solitamente i residenti di quel paese insorgono e si liberano da se'. Questo è ciò che abbiamo fatto noi. Si può anche fare mediante una nonviolenta disobbedienza civile di massa. Questo è ciò che ha fatto l'India. È possibile che il resto del mondo boicotti il regime, dandogli l'ostracismo, finché esso non sia costretto a capitolare. Questo è ciò che è successo in Sud Africa. Oppure, si può semplicemente aspettare che prima o poi le legioni del re se ne vadano (magari solo perché avevano troppo freddo). Questo è ciò che è successo in Canada.

L'unica cosa che proprio NON funziona è invadere un paese e dire alla gente -- "Siamo qui per liberarvi!" -- quando loro non hanno fatto NIENTE per liberarsi da soli. Dov'erano tutti i kamikaze quando Saddam li opprimeva? Dov'erano tutti gli insurrezionisti che piantamno bombe sul ciglio delle strade quando il conviglio del maledetto Saddam passava di là? Suppongo che il vecchio Saddam era un despota crduele -- ma non abbastanza crudele per migliaia di persone da rischiare la testa. "Oh No, Mike, loro non potevano farlo! Saddam li avrebbe uccisi!". Davvero? Pensate che il Re Giorgio non abbia ammazzato nessuno dei coloniali che insorgevano? Pensate che Patrick Henry o Tom Paine non avessero paura? Ma questo non li ha fermati. Quando decine di migliaia di persone non hanno voglia di versare il proprio sangue per cacciare un dittatore, questo dovrebbe essere il primo indizio per capire che essi non saranno partecipanti volenterosi quando decidete di liberarli al posto loro.

Un paese può AIUTARE altre persone a rimuovere un tiranno (che è quello che ha fatto la Francia per noi nella loro rivoluzione), ma dopo averli aiutati, se ne va. Immediatamente. La Francia non è rimasta a spiegarci come avrebbe dovuto essere il nostro governo. Non hanno detto "non ce ne andiamo perché vogliamo le vostre risorse naturali". Ci hanno lasciato con le nostre forze e ci sono voluti sei anni prima di avere un'elezione. E dopo abbiamo avuto una sanguinosa guerra civile. Questo è ciò che è successo, e la storia è piena di questi esempi. La Francia non ha detto "Oh, è meglio se rimaniamo in America, altrimenti si uccideranno a vicenda per ogni questione circa lo schiavismo!".

L'unico modo in cui una guerra di liberazione ha qualche possibilità di successo è se le persone oppresse che saranno liberate hanno dietro di se' dei padri fondatori -- un gruppo di Washingtons, Jeffersons, Franklins, Gandhis e Mandellas che li guida. Dove sono questi fari di libertà in Iraq? Questo fa ridere, ma non è stato uno scherzo fin dall'inizio. Si, lo scherzo era su di noi, ma con 655.000 iracheni morti come risultato della nostra invasione (fonte: Università Johns Hopkins), suppongo che lo scherzo crudele ora sia su di loro. Perlomeno sono stati liberati. Per sempre.

Michael Moore

(vedi l'articolo completo in inglese)

domenica 26 novembre 2006

Senza Patricio



Forse Patricio è scomparso. È scomparso e non lo sa. E’ scomparso a suo padre, non alla vita. Forse Patricio c'è, è vivo. È in qualche casa di questa grande città o di un'altra grande città. Forse ora ha vent'anni, una fidanzata e forse pensa a un figlio. Non sa che suo padre lo sta cer­cando, ogni giorno che Dio ha mandato in terra, da vent'anni fino a oggi. Ha i capelli bianchi, ora, l'uomo che lo fece al mondo.

E ricorda ancora il momento, il momento esatto, in cui Patricio uscì goccia dal suo corpo di uomo ed entrò, trasforman­dosi, in quello di sua madre. Ricorda la sensazione di piacere assoluto e lo stordi­mento di quella notte umida tra l'erba del giardino del parco Palermo, il più bello della capitale federale.
Ricorda il senso di paura di essere sco­perti. I gemiti nascosti, la faccia di Laura Estrela che un secondo prima era un'a­mante e ora era già madre. Almeno così la sua memoria la inventa.

Quando Raùl torna in quel luogo, a quell'ora di notte, chiude gli occhi e si immagina vent'anni prima. Pensa a tutto ciò che ha intorno, nel luogo e nella vita, come fosse migliaia di giorni fa. E quan­do li apre, gli occhi, gli sembra di vedere lo sguardo di Laura Estrela e di vedere in quello sguardo il passaggio fulmineo da una condizione all'altra, da corpo da pos­sedere a corpo che possiede.

La memoria gli raccontava questo, forse giocava con lui. O forse gli raccontava una verità che quella notte non aveva percepi­to, compreso. La memoria non è inerte. La cosa che accade, nel momento stesso in cui smette di accadere, è già ricordo. E già una sintesi, non una fotografìa precisa. È già una interpretazione, non un documen­to su carta. E il tempo si preoccupa gene­rosamente di frammentare e ricomporre, di consentire letture più mature, di dare significati sconosciuti. La memoria è atti­va, produce senso, costruisce scoperte. Raùl non aveva bisogno di cercare Aristotele nei suoi studi filosofici per sapere che «la memoria è del tempo». Lo sa respiran­do l'aria fresca della notte, lo sa nello spa­zio che passa tra il momento in cui decide di aprire gli occhi e il momento in cui i suoi occhi vedono. C'è un pieno, la memo­ria, e un vuoto, la realtà.

La «cosa», Laura Estrela fremente e madre, non è lì ma il tempo la restituisce com'era. E come allora non l'aveva vista, non l'aveva capita. Laura Estrela, con i suoi capelli rìcci pieni d'erba. E il suo sor­riso di denti bianchi. Ecco perché non apre gli occhi. Non vuole perdere un momento di quella sensazione fisica di desiderio e di oblio, che lo scuote come una vertigine.

Laura Estrela che qualche settimana dopo lo aspettò alla biblioteca dell'univer­sità. Aspettò che lui si sedesse, che pren­desse in mano l’Apologià della storia di Marc Bloch, che si immergesse nella let­tura, una mano a rigirare le pagine, l'al­tra a tormentarsi i riccioli. Aspettò che fosse perduto tra le parole scritte e poi si avvicinò furtiva e fece cadere tra i pensie­ri di Bloch un disegno di bambino.

C'era una stella gialla che sorrideva ma aveva una lacrima. Un prato verde con due figure abbracciate. E sospeso, come in volo, un bambino con i calzoni corti tenuto in aria da un palloncino blu come la notte. Dalla bocca del bambino, un fumetto, «Papa, te amo. Patricio». Raùl non si voltò subito. Voleva misurare quel tempo meraviglioso. Voleva fermarlo, sospenderlo. Voleva prevedere lo sguardo di Laura Estrela, prolungare il sorriso che immaginava.

Baciò il disegno, baciò la stella che ride­va e piangeva, baciò la notte argentina, baciò se stesso e Laura Estrela, il prato del loro amore, baciò il palloncino blu e poi Patricio, quell'idea di Patricio. Baciò il suo volto abbozzato, le sue mani, i suoi pantaloncini, i suoi capelli. Baciava un sogno di bambino ma mentre lo faceva sapeva che tutto era folle e forse ingiusto. Che il tempo che Laura Estrela e lui dove­vano vivere non era tempo di palloncini e di notti di sogno, era tempo di fughe e di lupi, di paure e di assedi. Fare una vita in quell'inferno gli pareva qualcosa a metà tra due opposte motivazioni: l'egoismo e la speranza. Quella vita che baciava sul disegno era la loro disperata voglia di avere fiducia, il loro tributo al sogno di una normalità riconquistata. Ma non era sicuro che quel giorno si sarebbe realizza­to. E allora Laura Estrela e lui, in quella notte nel prato, avevano inconsapevol­mente lasciato il campo all'egoismo di un desiderio. E ora ne sarebbe nata una vita, una vita soggetta a un terribile rischio. Il rischio di consegnare a quell'inverno infi­nito un'altra esistenza da gelare.

Era felice ma distrutto. Stava attento a non piangere anche per non rovinare il disegno. Poi si voltò e vide che non c'era il sorriso che si aspettava, sul volto di Laura Estrela. Era lei che piangeva, in silenzio.
Perché quel tempo si erano abituati a fare tutto in silenzio: l'amore, il pianto, le risate.

Laura Estrela aveva capito e per questo, forse per questo, aveva sospeso Patricio tra la terra verde e il cielo blu, lo aveva fatto uomo e non uomo, lo aveva immagi­nato tanto leggero da poter essere porta­to via dal vento. Via, al sicuro, ma nello spazio dello sguardo di quei due ragazzi abbracciati sul prato. Il ricordo è anche rimozione che il tempo non restituisce perché ha grandi ragioni per non farlo.
Così Raùl non ricorda il suo comporta­mento in quel momento. Forse la abbrac­ciò o forse no. Spesso facevano fìnta di non conoscersi perché se un giorno fosse successo qualcosa sarebbe successo a uno solo di loro.

E qualcosa successe. Un giorno, sarà stato verso la fine di aprile, Raùl sentì dei passi sulle scale. Era mattina, molto pre­sto. Sentì delle voci nascoste, quasi dei sussurri. Poi un calcio aprì la porta con un rumore che sembrava quello di un terre­moto. I poliziotti lo presero e lo portaro­no via. Uscì dal portone e fece in tempo a voltarsi per vedere da dietro le persiane chiuse lo sguardo del suo vicino, un suo amico, uno come lui. Con gli occhi pensò di dirgli di avvertire Laura Estrela, che si mettesse in salvo, che pensasse a Patricio che aveva in corpo, che fuggisse lontano, che negasse di conoscere lui e chiunque altro. Pensò che i suoi occhi, in quel fram­mento di tempo, avessero potuto dire tutto questo a Ricardo.

Lo portarono in un ufficio, un coman­do di polizia. Lo sbatterono in una cella senza niente su cui sedersi. Poi lo richia­marono per l'inizio dell'inferno. Lo face­vano stare dritto in piedi in uno spazio di un metro di larghezza delimitato da mat­toni. Lo portavano alla doccia dove gli sparavano addosso getti di acqua gelata. Gli mostravano la stanza delle torture dove qualcuno, in quel momento, veniva «elettrificato». Ma nella memoria non è questo il ricordo peggiore.

Quello che non riesce ancora oggi a togliersi dalla mente, quello che lo fa sve­gliare di notte, è il rumore della pallina da ping-pong con cui giocavano i carcerieri. All'ingresso c'era un tavolo sbilenco con una rete e sempre, mattino e notte, i cara­binieri di guardia ingaggiavano furiose battaglie. Quando lo torturavano Raùl, per occupare la mente, seguiva gli scambi tra gli avversari. Dato un inizio, contando il numero dei rimbalzi, si poteva calcola­re il punteggio e persino fare il tifo per uno dei due giocatori aguzzini. Raùl non parlò ma fu convincente nel suo silenzio. In effetti non aveva nulla a suo carico, non aveva fatto attentati, non aveva distri­buito volantini. Era di sinistra, questo sì, ma non era un capo e neanche un sottuf­ficiale di quell'esercito con cui i golpisti si sentivano in guerra. E non sempre si per­deva tempo con i soldati semplici. Così, mesi dopo, lo rimisero in libertà.

Una mattina presto lo caricarono in macchina e lo riportarono a casa. A Raùl sembrò il film del sequestro visto all'indietro. Si ritrovò sul suo letto, esattamente come nella mattina di aprile. Aspettò ore per essere sicuro che fossero davvero andati via. Stava fermo tra le coperte, come un animale braccato. Poi si mosse, lentamente. Cercò Ricardo, che non c'era più. E gli venne il dubbio che Ricardo avesse interpretato male il messaggio. Che avesse pensato fosse rivolto a lui, solo a lui. Che non avesse capito che doveva immediatamente uscire di casa, attraver­sare a perdifiato la città, salire le scale della casa di Laura Estrela saltando i gra­dini e portarla via. Anzi portarli via, Laura Estrela e Patricio.

Lo fece lui, quel percorso. Lo fece guardandosi indietro, cercando la garan­zia di non essere seguito. Lo fece spezzet­tando quella corsa. Entrando e uscendo da tutte le porte possibili di tutti i grandi magazzini possibili. Non aveva più sapu­to nulla di Laura Estrela né della nascita del bambino, prevista per il mese di giu­gno. Ora era ottobre e l'estate si stava avvicinando.
Arrivò alla casa della sua donna ma, quando suonò, la porta che si aprì fu quel­la di un vicino che lo fece entrare silenzio­samente. Si conoscevano, era anche lui dell'università.
Gli raccontò che Laura Estrela era stata presa a maggio e portata via. La guardò dallo spioncino, in quella mattina di grida. La vide che si teneva la sua pancia grande e portava con sé, in una borsa aper­ta, i suoi maglioni e i vestiti di un bambino che ancora non c'era. Non sapeva dove l'a­vessero portata, sapeva solo che non era tornata.

La vita di Laura Estrela è finita quella mattina. Nessuno l' ha più vista. Nessuno ne ha più saputo nulla. Solo un cugino della madre di lei aveva sentito dire che le era toccato il destino di tanti altri. Essere caricata su un aereo, essere portata in volo sul mare ed essere gettata giù. Ora era lei, nella memoria di Raùl, come sospe­sa, immobile, tra il cielo e il mare.

La vedeva come quel giorno all'univer­sità. La vedeva piangere, come una stella può piangere. La vedeva piangere a bocca chiusa, come se fosse al funerale di un altro. Come se quelle lacrime fossero versa­te pensando non a ciò che stava per succe­dere, ma a ciò che era già successo. Era lì, sospesa, in attesa, con solo le sue lacrime. Raùl sapeva che il mare l'aveva inghiottita e che solo lei avrebbe potuto dirgli qual­cosa di Patricio.

Lo ha cercato per vent'anni. L'unica cosa che è riuscito a sapere è che Patricio è nato il 25 giugno del 1978. Una data che gli argentini ricordano perché fu allora che vinsero i campionati del mondo di calcio e festeggiarono, ubriachi di gioia, quella pausa di serenità. Nei momenti più duri Raùl immagina le grida di Laura Estrela che fa nascere Patricio sommerse dal rumore dei fuochi d'artifìcio. Forse i suoi carcerieri stavano brindando eufori­ci, in quel momento. E forse dal carcere, o dal campo di detenzione, si saranno sentiti i clacson dei tifosi e saranno sven­tolate le bandiere, le stesse in nome delle quali, nello stesso momento, un bambino appena nato veniva strappato a una madre che sarebbe stata uccisa.

Raùl pensava a quell'istante come alla fine di tutto. Pensava che chi aveva preso Laura Estrela l'aveva valutata come una semplice fattrice, portatrice di un dono unico, un Babbo Natale da uccidere. Ser­viva a fare Patricio, solo a quello. E Patri­cio serviva a fare felice qualcuno, solo a quello.

Sembrava di impazzire, a Raùl, quando immaginava i suoi primi denti, il suo primo giorno di scuola, i suoi primi gio­chi, le sue prime malattie. Quando imma­ginava le sue prime pagelle, i suoi primi calci al pallone, le sue prime letture. Quando immaginava le sue vacanze in famiglia, i suoi pranzi in famiglia, i suoi Natali in famiglia. La cosa che non sop­portava era pensare che qualcuno avesse potuto rimproverare Patricio, gli avesse fatto un torto senza che lui lo sapesse. Lui, Raùl, che non conosceva nulla di suo figlio, della vita nata quella notte nel parco. Lo faceva impazzire che non potesse riconoscerlo, chiamarlo, abbracciarlo.

Per anni era stato davanti a centinaia di scuole. Man mano, tenendo il conto, si spostava dalle elementari alle medie alle superiori. Guardava i volti dei bambini che uscivano cercando in essi il suo o quel­lo di Laura Estrela. Sentiva le loro risate e li vedeva abbracciare i genitori e andare via con loro. Restava sempre lì da solo, ultimo.

La sera, quando il dolore gli spaccava il cuore, prendeva l'automobile e correva per la città immaginando che dietro le luci accese di uno di quegli appartamenti forse c'era Patricio. Andava alle gare spor­tive dei ragazzi e all'uscita delle discote­che. Aveva messo un grande annuncio sul giornale, ma aveva ottenuto solo due invi­ti a popolari talk-show.

Una notte non riusciva a smettere di piangere, il cuore gli sembrava una spu­gna strizzata, il cervello premeva per usci­re dal suo spazio. Sentì un dolore, quello dell'assenza, che non era più sopportabi­le. Pensò a Laura Estrela in fondo al mare, perduta. E pensò a Patricio, in qualche uni­versità, ingannato. Aprì l'armadio dove teneva le cose a cui era più affezionato. Cercò il disegno che aveva conservato. La sera dopo uscì e trovò il primo spazio che andasse bene. Prese un pennello e lo immerse in una vernice blu, blu come il cielo di notte e un palloncino invisibile. Scrisse con tutta la forza che aveva «Patri­cio, te amo. Papà».

Poi chiuse gli occhi e respirò forte. Cer­cava l’unica aria che gli era rimasta. Quel­la della memoria.

Senza Patricio
Walter Veltroni

mercoledì 22 novembre 2006

La verità ... in tasca

Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi elettori!

Rokko Smiterson

mercoledì 15 novembre 2006

Costa Brava


da www.desktoprating.com

Palamòs
Lungomare, Taverna Le Castellet
Ore 23:50

Interni in pietra,
volte di mattoni rossi sovrastanti tavoli di legno
che sanno tutto di tutti
testimoni silenziosi di amori lì sbocciati
di legami spezzati, di amicizie nate davanti a una cervéza
nelle limpide notti d'estate.
Un uomo abbronzato e il suo cocktail insieme,
da soli a un tavolo del dehor;
una canzone va nell'aria

"... Ay amor me duele tanto
Me duele tanto
Que te fueras sin decir a donde
Ay amor, fue una tortura perderte..."

La tiepida brezza della sera si insinua tra corpi anneriti
dall'inclemente sole del giorno;
sconosciuti si osservano maliziosamente, sfilano lenti
in una processione senza santi

"...Yo se que no he sido un santo
Pero lo puedo arreglar amor
No solo de pan vive el hombre
Y no de excuchas vivo yo... "

Sfiora con le dita il bicchiere pensieroso,
gli occhi fissi sul ghiaccio che si dissolve nel caldo della sera;
angeliche olandesi, diaboliche spagnole,
le distrazioni non mancano
ma lui non se ne cura,
è troppo assorto
camicia bianca sbottonata, bermuda blu eleganti,
uno sguardo profondo e accigliato

"... Ay amor me duele tanto
Me duele tanto
Que no creas m­­ás en mi promesas
Ay amor es una tortura perderte... "

Tempo di andar via, i camerieri ritirano stancamente le sedie, sistemano i tavoli,
è ora di svegliarsi da questo sogno e andare a dormire.
Il nostro amico si alza lentamente, guarda il mare,
un punto indefinito nel nero orizzonte.


“… Solo de errores se aprende
Y hoy se que es tuyo mi corazón… “

Una piega sulle sue labbra, sembra un sorriso
un’altra serata passata in compagnia.
No, in realtà non era solo.
Certi ricordi non ti lasciano mai.

(La canzone è “La tortura” cantata da Shakira e Alejandro Sanz)

sabato 11 novembre 2006

Notte prima degli esami




"Quando l'ultimo giorno di scuola dell'ultimo anno di liceo suona la campanella dell'ultima ora tu sei convinto che quello sia l'ultimo secondo della tua adolescenza ... senti il bisogno di sottolineare l'evento con una frase storica tipo "Che la forza sia con noi" oppure "Campioni del mondo, campioni del mondo" ...

Quella
notte è andata così ... eppure me la ricorderò per sempre perchè era una notte speciale ... ma io la magia di quella notte, come spesso accade nella vita, non l'ho più ritrovata."


Ho rivisto l’altra sera “Notte prima degli esami”. Quando c’è da ravanare nei ricordi, da masturbarsi con il passato, da sfiancarsi per la nostalgia io sono sempre in prima fila.
Il buffo è che non ricordo nulla di quella mitica notte e pochissimo del giorno dopo. Si lo so è passato tanto tempo, troppo tempo. Mi sovvengono solo dei flash. Mi ricordo mentre farneticavo davanti alla commissione su un’interpretazione cristologica di Pinocchio o gli occhi terrorizzati di Ruggero detto “Fisherman” che fece una clamorosa scena muta e poco altro.

Perché ci appaiono straordinari quegli anni? Forse perché ci divertivamo o forse semplicemente perché il futuro ci sembrava amico, gravido di chissà quali tesori mentre oggi quel futuro è già quasi passato.

Ci siamo persi un po’ tutti di vista. Quando vedo film come “Compagni di scuola” o lo stesso “Notte prima degli esami” mi piacerebbe poter organizzare una rimpatriata. Sarebbe bello potere vedere che faccia abbiamo dopo alcuni anni; o forse no.
Con qualcuno ci siamo rivisti. Con Miletto, genio e sregolatezza siamo andati a bere qualcosa insieme. Si ricordava ancora il mio numero di telefono. Peccato non l’abbia più usato.
Poi alcuni incontri casuali. Pinuccio detto “Cioccia” si materializzò una mattina di un sabato al bancone di un autogrill della tangenziale. Vai a capire perché l’unica immagine che ho di lui è sul 38, pigiati come sardine, mentre guardavamo rapiti la brunetta della terza H.

Il mitico 38, Piazza Massaua, Corso Francia, Viale Gramsci. Ricordo ancora la scritta che ogni giorno intravedevo dai finestrini: “Se non vivi come pensi, finisci di pensare a come vivere”. Credo fosse scritta sui muri di una scuola media. Chissà perché me la ricordo.

Dove sei Tarizzo? Mi mancano i tuoi tonanti “Mah” pronunciati durante le asettiche lezioni di elettronica col professore rigorosamente di spalle. Erano più che semplici dubbi. Erano una dichiarazione programmatica, un mantra esistenziale profetico.
E tu Secchi, che fine hai fatto? Te la ricordi ancora la tua versione porno di “Voglia una vita spericolata” di Vasco. Non te l’ho mai detto ma era un capolavoro.

Poi, dopo anni di vuoto, Pasquale. Mi ero da poco trasferito nei nuovi uffici, nel “lager” di Corso Bramante e tu sbucasti da un’ascensore, un fantasma del passato redivivo. Il tuo sorriso sghembo, il tuo fisico da palestrato in pensione, la stessa camicia bianca della foto di classe. Scoprire che lavoravi nell’ufficio dietro il mio fu il più bel regalo.
Venivo a trovarti appena potevo e ogni volta era la stessa storia. Ti abbracciavo, “Dai fai il muscolo … che pezzo d’uomo … fai sentire la tetta”.
Mostravi con piacere le tue foto dei tuoi viaggi in Africa, avevi una compagna della Costa D’Avorio. Ce n’era una, in cui tu, unico bianco, eri circondato da tutti i tuoi parenti africani. L’appendesti sopra la tua scrivania ridendo. Andammo anche in palestra insieme.
Poi, mi ricordo era gennaio, l’ultimo viaggio. “Vado dai suoceri”. Non ricordo nemmeno se ci salutammo come si deve. Ricordo solo la faccia stravolta del tuo collega che mi fermò dicendo: “Hai saputo di Pasquale?”.

A distanza di mesi sono tornato in quello che era il tuo ufficio ma la tua foto non c’è più. Mi è rimasta solo l’altra dove tu mi sorridi nel gruppo dei compagni con la tua camicia bianca. Ciao Pasquale, e ciao anche voi ragazzi. Che la forza sia con voi.

P.S. ma come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati?

venerdì 10 novembre 2006

Canto disperato

Non prendo sonno e non ci provo neanche. Fisso il quadro davanti a me: case bianche dove forse qualcuno avrà sofferto come sto soffrendo io.

«Se posso ti chiamo.»
Non mi hai chiamato. Non hai potuto o, più sem­plicemente, non hai voluto.
Questa luce è troppo forte, mi fora la testa, ci scava un buco, dentro cui fischia il vento.
Quel vento sono i miei pensieri,
Sto affogando, darling.
Te lo scrivo su questo foglio bianco, un foglio che non leggerai mai.
Sto annegando dentro le parole che ti ho scritto e urlato contro. Parole che continuo a scrivere.
Qualche volta le hai ascoltate, e poi?
Poi, sempre, sei tornata da lui.
A fare cosa? Forse a contare i giorni che mancavano al vostro matrimonio?
Quanti sono?
Neanche uno.
Domattina metterai il vestito bianco che hai pro­vato almeno dieci volte e lui ti aspetterà all'altare. Sarà là come un casello autostradale, al di là del qua­le non ti sarà più possibile scegliere la strada che vuoi percorrere.

Per lui saranno gli angeli a parlare, non si accor­gerà di niente. Sarà innocente, pulito e pettinato, com'ero io il giorno in cui ci siamo conosciuti. Come quando ti chiesi di fare con me il giro di Venezia e tu mi rispondesti: «Bisogna che rientri, deve chia­marmi il mio ragazzo».
Quel ragazzo, domani a mezzogiorno e cinque, sarà tuo marito. Tu gli giurerai fedeltà, amore, ri­spetto e lui crederà nel tuo giuramento e non si scomporrà neanche quando qualcuno, dal fondo della chiesa, urlerà: «Fermate tutto».
Quel qualcuno sarò io.
Avrò l'aria di un pazzo. Come nei film, tutti si vol­teranno e chiederanno: «Ma chi è?».
Chi sono io?
Chi siete voi!

Sta' tranquilla. Una cosa è certa: non sono il tipo che fa cose del genere. Domattina sarò ancora a Ve­nezia, dove sono venuto ieri sera con il preciso intento di essere qui proprio nel momento in cui, di­cendo «sì» a lui, dirai «no» a me.
In albergo ho preso una stanza che conosci. La stanza dove abbiamo passato un'intera notte a par­lare, senza accorgerci che si era fatta l'alba. E tu, con­fusa, stupita, frettolosa, mi avevi lasciato con un ba­cio sulla guancia che non mi aveva fatto più dormire.
Sono qui, dove mi lasciasti il tuo numero di telefo­no dicendo: «Se risponde lui, riattacca».
Potevo scegliermi una storia più sincera, e invece decisi di scendere in quell'imbuto di mezze frasi e nascondigli.

«Lascialo» mi è scappato una sera. Mi sarei voluto mordere la lìngua, ma ormai era tardi.
Non rispondesti, facesti finta di niente.
Non mi chiamasti per tre giorni, io rimasi in piedi contro un cielo di cartone e sabbia. Piansi. Non lavo­rai per tre giorni.
Poi mi richiamasti, come se niente fosse, e io, come se niente fosse, ti rividi subito, di corsa. Ripresi a re­spirare, a vivere.

Perché mi è successo questo?
Perché continua a piovere e la notte è livida?

Ho cenato da solo. Non c'è niente di più triste.
Un cameriere stanco mi ha recitato a memoria il menu, come se fosse una poesia. Non l'ho lasciato fi­nire; l'ho stoppato sulla cotoletta alla milanese. Quando me ne sono andato, ho visto la sua silhouette incorniciata nel vano di una porta. Torna­va in cucina, dove forse vive un cuoco ancora più tri­ste di lui.
In piazza San Marco sono rimasto almeno un quarto d'ora col naso all'insù, nello sforzo di distin­guere una stella. Non ne ho visto nessuna.

Sono rientrato. Salendo le scale, gli occhi mi si so­no riempiti di lacrime. Mi sono fermato perché non riuscivo più a vedere. Ho tirato su col naso, come i bambini; come i bambini, ho pensato che l’unica a volermi bene veramente era la mia mamma.
Con la manica del cappotto mi sono asciugato il viso. Mi sono visto in uno specchio e mi sono fatto pena.
Mi sono messo a piangere ancora più forte.
Credevo che quelle lacrime non sarebbero mai fi­nite.
Invece, appena seduto sul letto, mi sono distratto con il modulo della colazione. A fianco del modulo, era appoggiata una matita sottile con il nome del­l'hotel.
Come i bambini che smettono di piangere se qual­cuno mostra loro un nuovo giocattolo, mi sono asciugato gli occhi e mi sono messo a far crocette.
Ero indeciso fra cappuccino e caffelatte. Ho messo una crocetta sul CAPPUCCINO e ho ordinato due CROISSANT.
Avevo cenato da poco, ma chissà perché il pensie­ro della colazione mi piaceva.
Mi sono sdraiato sul letto.
Dal climatizzatore usciva un getto d'aria caldissi­ma. Ho fatto lo sforzo di alzarmi per spengerlo.
Ho guardato fuori della finestra e mi sono fatto una domanda banale: «Che cosa farai in questo mo­mento?».
Chissà se hai più pensato alla volta che ti chiesi di sposarmi: credevi che scherzassi. Abbassasti gli oc­chi e dicesti: «Non posso».
«Perché?»
Non hai risposto.

Il giorno dopo trovai sotto la porta di casa un tuo biglietto: «Il nostro incontro è stato uno sbaglio. Fac­ciamo finta di non esserci mai conosciuti. Non capi­sco cosa voglio. Forse ti amo, ma so che non è giu­sto».
Lo strappai subito, archiviandolo nella memoria.
Cosa volevi dire?
Che cosa è giusto?
Che cosa non è giusto?
E forse giusto piangere a trentanni sulle scale di un vecchio albergo?
E forse giusto tagliare torte e farsi fare foto con i parenti dell'uomo che per due anni hai tradito?

Mi vengono in mente i film che abbiamo visto, stesso canale, tu a casa di lui, io a casa solo.

Totò.
Il più grande. Ho acceso il televisore: la testa non mi scoppierà più.
Totò in bianco e nero: perfetto, un'opera d'arte.
Mi viene addirittura da sorridere: un gioco di pa­role, uno sguardo a Peppino, la chiusa geometrica, come se quelle parole fossero disegnate dal più ge­niale degli architetti, rido. Mi sistemo meglio sul let­to, la pubblicità, mezzanotte: oggi è il 14 febbraio! Bravi, vi siete sposati proprio il giorno giusto, che bella pensata. Bravi, e una ragazza si lascia inqua­drare tutta nuda di spalle e mi assicura una vasca a idromassaggio confortevole.
Riparte il bianco e nero e io mi aiuto con una boc­cetta di grappa che ho estratto dal frigorifero tintin­nante di bottigliette.

«Rien ne va plus!», e il ticchettio della pallina im­pazzita mi diverte.
Ho già vinto otto milioni.
Un'americanona grassa fa le mie stesse giocate, e ogni volta che ritira la vincita mi strizza l'occhio.
È la seconda volta che entro in un casinò. La prima volta fu con te. Persi seicentomila lire. Le stesse che avevo deciso di perdere anche stasera. Invece sto vin­cendo sette milioni e quattrocentomila lire. L'americanona si è messa un bacio sulla punta dell'indice e me l'ha spedito.

Tutto per tutto-Otto milioni sul rosso. L'americanona è prudente e ne punta solo due.
Sto sudando...
«Rien ne va plus.»
«Rosso, rosso, rosso, rosso, rosso.»
ROSSO!
GOL!
E sono sedici milioni. Ma siamo uomini o caporali?

L'americanona si alza, mi raggiunge, mi butta le braccia al collo, mi bacia sulla bocca.
Ricambio il bacio, e per esagerare ci metto anche la lingua.
«Come with me,» dico all’americanona «che sta­notte c'ho sedici milioni da sputtanarmi.»

All'aeroporto mi prendono per pazzo.
Chiedo: «Esiste qualcuno che mi possa portare su­bito a Parigi?».
«Le potremmo organizzare un volo tra un'ora» di­cono. «Le costerebbe dodici milioni.»
«Perfetto.»
L'americanona ride: «You're crazy!».
«Yes.»

Dopo due ore l'aereo decolla.
All'aeroporto di Parigi qualcuno trova da ridire su non so quali documenti.
«Tanto tra due ore ripartiamo» dico.
Il mio pilota è perplesso, l'americanona ride: crede che si tratti di una battuta. L'americanona sotto la Torre Eiffel sembra un qua­dro di Botero.
Potremmo essere il ritratto perfetto di due dispe­rati e invece Parigi ci ha accolti di notte mettendo tutti a letto lasciandoci la torre illuminata che ci rac­conta quanti giorni mancano al duemila.

Stiamo tornando a Venezia.

Cara Sabrina, ti auguro di essere felice come lo so­no io, ora su quest'aerino tutto pelle, con questa sco­nosciuta tra le braccia.
Tra poco le dirò addio con un bacio sulle guance.
In quel momento tu starai dicendo: «Sì».

E accaduto quello che doveva accadere. Il destino aveva deciso che uscissero il quattro, il trentasei e poi tre volte il rosso. Era scritto, Sabrina. Non ti cercherò più.

Non sono ancora le otto.
Arriverò a Venezia in tempo per mangiare i due croissant.

Leonardo Pieraccioni
Trent'anni alta mora

mercoledì 8 novembre 2006

Problemi veri

Sono disgustato.

Nessuno sa più apprezzare niente.
In questo deserto di sentimenti siamo rimasti soli io e la mia gioia di vivere.

Ho detto questo durante questo schifo di giornata in questo schifo di mondo a quello schifo di sconosciuto che ho incontrato in quella schifo di strada di fronte a quello di schifo di negozio che vende quello schifo di bambole con quello schifo di vestitini.

martedì 7 novembre 2006

Sindone



da sindone.org

Fine anni '90. Era un venerdì pomeriggio e mi trovavo a scuola aspettando il corso pomeridiano d'inglese. Io e i miei compagni, in attesa di 2 pesanti ore di lezione nell'aula 8E facevamo quello che comunemente si fa quando si aspetta: alcuni fumavano spinelli a nastro, altri parlavano di ragazze e gradi d'inclinazione sessagesimali; nel frattempo il rappresentante di classe vestito da squatter tentava di dividere due che si insultavano la mamma per questioni riguardanti il fantacalcio.

In mezzo a tutta questa sobrietà mi trovavo io, accasciato sulla cattedra con il walkman a cassetta dotato di sistema Dolby per l'abbattimento del fruscio, struggendomi alla voce di Loretta Goggi che stava cantando "Maledetta Primavera".

Ad un tratto Alberto si avvicina interrompendomi sul "per innamorarsi basta un'ora..." costringendomi a togliermi l'auricolare sinistro e ascoltarlo. Alby era seriamente deluso, aveva fatto la fila per vedere la Sindone esposta a Torino ma era andata male: "Non sono riuscito a vederla perchè c'era un lenzuolo davanti."

Non ho mai avuto il coraggio di rispondergli.

lunedì 6 novembre 2006

A occhi chiusi

Nel retrobar appiccicoso di un bagno balneare Piero ricontò tra le mani quelle venti collosissime banco­note da centomila.
«Bravo, bravo davvero» lo aveva rassicurato il ge­store del Bagno Europa. «Il prossimo anno ti rivo­glio, ma fammi un po' di sconto, eh?»
Adesso in macchina, solo, coi soliti pensieri: il mu­tuo di una casa troppo grande per lui, l'aspettativa in Regione che stava per scadere, una proposta tele­visiva indecente.
All'autogrill aveva preso torta di mele e cappucci­no, poi si era tuffato tra le riviste, tra i giornali spor­tivi, tra le videocassette scontate del settanta per cento. Una ragazzina lo aveva indicato al padre, e questi gli aveva chiesto se fosse un giornalista del Tg3.
«Sono un imitatore, ho fatto un programma sul se­condo.» «Ah...» aveva bleffato l'uomo fingendo di averlo appena messo a fuoco.
«Ah!» gli aveva fatto eco la ragazzina subito di­stratta dalla videocassetta dei Take That, Ma, d'altra parte, l'aria di un autogrill è pastosa, confusa, dram­maticamente cordiale. Una zona franca di moderni pellegrini che se ne vanno per l'Italia a pigliarselo nel c…. Sì, insomma, così Piero vedeva quegli omi­ni in canottiera e quelle donnine coi sandali bianchi. Forse si amavano anche, ma a quale prezzo? Gli au­togrill li dovrebbero chiudere. Se uno ha voglia di pisciare, piscia all'aperto, se uno ha fame o sete do­vrebbe uscire dall'autostrada e fermarsi al bar del primo paese che incontra. Ce ne dovrebbe essere uno aperto sempre, anche la notte: sarebbe pure un modo per conoscere meglio l'Italia.
Dalla copertina delle «Ore» una biondina con la quarta misura lo fissava con un'espressione strana, come se volesse chiedergli: «Ma quanto guadagna un imitatore?».
Si comprò «Le Ore» con la biondina. Un po' se ne era anche già innamorato, e ci rimase malissimo quando all'interno non trovò neanche una sua foto. Ci trovò invece il servizio di una rossa che sembrava tutta la sua ex compagna di liceo. Era alle prese con tre uomini e, nell'ultima fotografia del servizio, guardava nell'obiettivo con un'espressione come se volesse chiedergli: «Perché non mi fai Ettore Scola?».
Era il suo cavallo di battaglia ma purtroppo la vo­ce di Scola non la conosce quasi nessuno. Eppure lo faceva identico. Un giorno addirittura aveva chiamato Cinecittà e con la voce di Scola si era racco­mandato da solo alla aiuto regista del Postino. Lei lo aveva ricevuto dopo due ore, però aveva anche mes­so le cose in chiaro: «Il cast è chiuso, comunque un provino te lo faccio lo stesso, salutami Ettore».
«'Sto c…..»
Nel provino gli era venuta fuori la voce di Amendola quando fa De Niro e la ragazza lo aveva notato. Da­vanti a Cinecittà aveva socchiuso gli occhi in contro­luce per mettere a fuoco l'insegna che gli sembrava ancora quella dell'epoca del fascismo. Si sentì una comparsa nel'51.

Quando fece girare la chiave nella porta di casa erano le tre e mezzo. Richiuse la porta e rimase in si­lenzio al buio. La lucina della segreteria telefonica lampeggiava.
I messaggi erano tre.
II primo era del suo amico Domenico.
«Oh, domani c'ho du' fi... che vengono da Trie­ste, tienti libero!»
Anche il secondo era di Domenico.
«Sono sempre io, ne viene una e basta, fatti una se...»
Il terzo era di una sconosciuta.
«Ciao, Piero. Noi non ci conosciamo, mi chiamo Caterina. Il tuo numero me l'ha dato il Lanini, avrei bisogno di parlarti, se mi puoi chiamare...»
Caterina. Caterina chi? II Lanini era un impresario di Montevarchi: gli aveva fatto fare qualche serata, poi era stato arresta­to per sfruttamento della prostituzione.
Ogni tanto faceva rimanere le ballerine brasiliane nel locale senza chiedere loro di ballare.
Anderstend?

Chissà, forse anche Caterina era una ballerina. «Domattina la chiamo» pensò Piero.

«Grazie d'avermi chiamata, ora non posso parlare, ci possiamo incontrare a casa mia?»
«Ma per cosa?»
«Mi è venuta un'idea, te ne devo parlare di perso­na.»
Piero respirò dentro la tazzina del caffè. Distese tutti i suoi pensieri. S'interrogò. Non riuscì neanche lontanamente a ipotizzare che cosa volesse questa Caterina.
Clic - lasciate un messaggio - clic: «Son Domenico, 'un è venuta neanche una di quelle du' tr…, icché si fa stasera?».
Dlin, dlon. Il campanello suona come nelle scenet­te dei villaggi turistici. Dlin, dlon, davanti a una casa grande, borghese, importante.
Bzzz, e si apre prima il cancello e poi un portone di legno scuro che fa apparire Caterina. Castana chiara, un metro e settanta, magra, gli occhi dietro un paio di occhiali minuscoli. Un sorriso. Piero che le tende la mano, lei che risponde al suo «ciao» con uno «scusa se ti rompo le palle». Un altro sorriso, questa volta giustificato da tanta franchezza.
«Signorina, io ho finito, ci vediamo domani.»
Adesso i due sembrano soli in casa. Caterina si si­stema a sedere sul divano, lo sguardo sopra una vi­deocassetta, un leggero imbarazzo.
«Il Lanini mi ha detto che imiti le persone in ma­niera impressionante.»
Piero è distratto dalle foto incorniciate nell'argen­to: Caterina al mare, Caterina sugli sci, Caterina ve­stita da uomo.
«Ti voglio pagare per un esperimento» arriva diret­ta al punto la ragazza togliendosi gli occhialini. La vi­deocassetta passa dal tavolino alle mani di Piero.
«Potresti imitare il ragazzo che parla delle sue va­canze in questo video?»
«Perché?»
«Perché mi piacerebbe riparlarci e farmi dire delle cose che lui non mi direbbe mai.»
«È morto?»
«No, mi ha lasciata. Tre anni insieme e poi ha incon­trato quella che dice essere la donna della sua vita.»
A Piero scappa quasi da ridere ma la ragazza lo anticipa con un sorriso.
«Sono pazza, eh?»
«Sì.»
«Quanto tempo ti serve per studiarlo?»
«Tre o quattro giorni.»
«Tra una settimana ci rivediamo. Quanto vuoi?»
«Mah, non so, fai te.»
A casa Piero si preparò una pastasciutta, poi infilò la cassetta nel videoregistratore. Subito provò un'istinti­va antipatia per quel ragazzo abbronzato, con i riccioli, che raccontava, sforzandosi di essere divertente, una sua vacanza in Africa con safari e tutto il resto. Una vo­ce anonima, senza personalità. Solo un leggero accen­to faceva intuire una lontana origine veneta.

Mise in pausa, il ragazzo rimase immobile a occhi chiusi, un sorrisetto deficiente gli si dipinse sul volto. Doveva essere cattivo o forse, ancora peggio, sempli­cemente stupido. Che cosa ci trovava Caterina? Quando si è innamorati, si dovrebbero mostrare dei video del proprio amato a persone totalmente disin­teressate. Una specie di esame, di controllo. C'è sem­pre una verità su tutto. L'amore spesso la nasconde.

Quel lunedì Piero telefonò subito a Caterina. «Sono già pronto.»
«Davvero?» squittì forte la ragazza, emozionata. «Credo di sì.»
Si ritrovarono quel pomeriggio stesso. Caterina era elegante e ben truccata.
«Allora cominciamo?»
«Certo» rispose Piero.
La ragazza si sedette sul divano, chiuse gli occhi e, con voce dolcissima, gli chiese: «Ale, come stai?».
Ale e Caterina chiacchierarono fino alle dieci di sera.
Quella volta, Piero parlò per ore, senza un testo, senza una scaletta, seguendo l'ispirazione.
Caterina lo ascoltava estasiata.
Quando sì separarono, Caterina gli domandò: «Cosa ti devo?».
«Nulla» rispose la voce di Ale, quasi con stupore. «Però voglio questa foto.» E indicò la foto di Cateri­na vestita da uomo.
«Senza cornice» aveva puntualizzato la ragazza.
«Con la cornice» aveva ribattuto Piero.
Con la cornice.

La portinaia dello stabile, che stava per andare a letto, sentì che qualcuno scendeva le scale e sollevò la tendina per vedere chi fosse.
«Chi è?» le chiese il marito dall'altra stanza.
«È quell'Ale, il fidanzato della ragazza del 14» ri­spose la donna, «Si vede che si sono rimessi insieme.»

Trent'anni alta mora
Leonardo Pieraccioni

venerdì 3 novembre 2006

Problemi veri

Sono così timido che quando mi guardo allo specchio mi sento osservato