domenica 26 novembre 2006

Senza Patricio



Forse Patricio è scomparso. È scomparso e non lo sa. E’ scomparso a suo padre, non alla vita. Forse Patricio c'è, è vivo. È in qualche casa di questa grande città o di un'altra grande città. Forse ora ha vent'anni, una fidanzata e forse pensa a un figlio. Non sa che suo padre lo sta cer­cando, ogni giorno che Dio ha mandato in terra, da vent'anni fino a oggi. Ha i capelli bianchi, ora, l'uomo che lo fece al mondo.

E ricorda ancora il momento, il momento esatto, in cui Patricio uscì goccia dal suo corpo di uomo ed entrò, trasforman­dosi, in quello di sua madre. Ricorda la sensazione di piacere assoluto e lo stordi­mento di quella notte umida tra l'erba del giardino del parco Palermo, il più bello della capitale federale.
Ricorda il senso di paura di essere sco­perti. I gemiti nascosti, la faccia di Laura Estrela che un secondo prima era un'a­mante e ora era già madre. Almeno così la sua memoria la inventa.

Quando Raùl torna in quel luogo, a quell'ora di notte, chiude gli occhi e si immagina vent'anni prima. Pensa a tutto ciò che ha intorno, nel luogo e nella vita, come fosse migliaia di giorni fa. E quan­do li apre, gli occhi, gli sembra di vedere lo sguardo di Laura Estrela e di vedere in quello sguardo il passaggio fulmineo da una condizione all'altra, da corpo da pos­sedere a corpo che possiede.

La memoria gli raccontava questo, forse giocava con lui. O forse gli raccontava una verità che quella notte non aveva percepi­to, compreso. La memoria non è inerte. La cosa che accade, nel momento stesso in cui smette di accadere, è già ricordo. E già una sintesi, non una fotografìa precisa. È già una interpretazione, non un documen­to su carta. E il tempo si preoccupa gene­rosamente di frammentare e ricomporre, di consentire letture più mature, di dare significati sconosciuti. La memoria è atti­va, produce senso, costruisce scoperte. Raùl non aveva bisogno di cercare Aristotele nei suoi studi filosofici per sapere che «la memoria è del tempo». Lo sa respiran­do l'aria fresca della notte, lo sa nello spa­zio che passa tra il momento in cui decide di aprire gli occhi e il momento in cui i suoi occhi vedono. C'è un pieno, la memo­ria, e un vuoto, la realtà.

La «cosa», Laura Estrela fremente e madre, non è lì ma il tempo la restituisce com'era. E come allora non l'aveva vista, non l'aveva capita. Laura Estrela, con i suoi capelli rìcci pieni d'erba. E il suo sor­riso di denti bianchi. Ecco perché non apre gli occhi. Non vuole perdere un momento di quella sensazione fisica di desiderio e di oblio, che lo scuote come una vertigine.

Laura Estrela che qualche settimana dopo lo aspettò alla biblioteca dell'univer­sità. Aspettò che lui si sedesse, che pren­desse in mano l’Apologià della storia di Marc Bloch, che si immergesse nella let­tura, una mano a rigirare le pagine, l'al­tra a tormentarsi i riccioli. Aspettò che fosse perduto tra le parole scritte e poi si avvicinò furtiva e fece cadere tra i pensie­ri di Bloch un disegno di bambino.

C'era una stella gialla che sorrideva ma aveva una lacrima. Un prato verde con due figure abbracciate. E sospeso, come in volo, un bambino con i calzoni corti tenuto in aria da un palloncino blu come la notte. Dalla bocca del bambino, un fumetto, «Papa, te amo. Patricio». Raùl non si voltò subito. Voleva misurare quel tempo meraviglioso. Voleva fermarlo, sospenderlo. Voleva prevedere lo sguardo di Laura Estrela, prolungare il sorriso che immaginava.

Baciò il disegno, baciò la stella che ride­va e piangeva, baciò la notte argentina, baciò se stesso e Laura Estrela, il prato del loro amore, baciò il palloncino blu e poi Patricio, quell'idea di Patricio. Baciò il suo volto abbozzato, le sue mani, i suoi pantaloncini, i suoi capelli. Baciava un sogno di bambino ma mentre lo faceva sapeva che tutto era folle e forse ingiusto. Che il tempo che Laura Estrela e lui dove­vano vivere non era tempo di palloncini e di notti di sogno, era tempo di fughe e di lupi, di paure e di assedi. Fare una vita in quell'inferno gli pareva qualcosa a metà tra due opposte motivazioni: l'egoismo e la speranza. Quella vita che baciava sul disegno era la loro disperata voglia di avere fiducia, il loro tributo al sogno di una normalità riconquistata. Ma non era sicuro che quel giorno si sarebbe realizza­to. E allora Laura Estrela e lui, in quella notte nel prato, avevano inconsapevol­mente lasciato il campo all'egoismo di un desiderio. E ora ne sarebbe nata una vita, una vita soggetta a un terribile rischio. Il rischio di consegnare a quell'inverno infi­nito un'altra esistenza da gelare.

Era felice ma distrutto. Stava attento a non piangere anche per non rovinare il disegno. Poi si voltò e vide che non c'era il sorriso che si aspettava, sul volto di Laura Estrela. Era lei che piangeva, in silenzio.
Perché quel tempo si erano abituati a fare tutto in silenzio: l'amore, il pianto, le risate.

Laura Estrela aveva capito e per questo, forse per questo, aveva sospeso Patricio tra la terra verde e il cielo blu, lo aveva fatto uomo e non uomo, lo aveva immagi­nato tanto leggero da poter essere porta­to via dal vento. Via, al sicuro, ma nello spazio dello sguardo di quei due ragazzi abbracciati sul prato. Il ricordo è anche rimozione che il tempo non restituisce perché ha grandi ragioni per non farlo.
Così Raùl non ricorda il suo comporta­mento in quel momento. Forse la abbrac­ciò o forse no. Spesso facevano fìnta di non conoscersi perché se un giorno fosse successo qualcosa sarebbe successo a uno solo di loro.

E qualcosa successe. Un giorno, sarà stato verso la fine di aprile, Raùl sentì dei passi sulle scale. Era mattina, molto pre­sto. Sentì delle voci nascoste, quasi dei sussurri. Poi un calcio aprì la porta con un rumore che sembrava quello di un terre­moto. I poliziotti lo presero e lo portaro­no via. Uscì dal portone e fece in tempo a voltarsi per vedere da dietro le persiane chiuse lo sguardo del suo vicino, un suo amico, uno come lui. Con gli occhi pensò di dirgli di avvertire Laura Estrela, che si mettesse in salvo, che pensasse a Patricio che aveva in corpo, che fuggisse lontano, che negasse di conoscere lui e chiunque altro. Pensò che i suoi occhi, in quel fram­mento di tempo, avessero potuto dire tutto questo a Ricardo.

Lo portarono in un ufficio, un coman­do di polizia. Lo sbatterono in una cella senza niente su cui sedersi. Poi lo richia­marono per l'inizio dell'inferno. Lo face­vano stare dritto in piedi in uno spazio di un metro di larghezza delimitato da mat­toni. Lo portavano alla doccia dove gli sparavano addosso getti di acqua gelata. Gli mostravano la stanza delle torture dove qualcuno, in quel momento, veniva «elettrificato». Ma nella memoria non è questo il ricordo peggiore.

Quello che non riesce ancora oggi a togliersi dalla mente, quello che lo fa sve­gliare di notte, è il rumore della pallina da ping-pong con cui giocavano i carcerieri. All'ingresso c'era un tavolo sbilenco con una rete e sempre, mattino e notte, i cara­binieri di guardia ingaggiavano furiose battaglie. Quando lo torturavano Raùl, per occupare la mente, seguiva gli scambi tra gli avversari. Dato un inizio, contando il numero dei rimbalzi, si poteva calcola­re il punteggio e persino fare il tifo per uno dei due giocatori aguzzini. Raùl non parlò ma fu convincente nel suo silenzio. In effetti non aveva nulla a suo carico, non aveva fatto attentati, non aveva distri­buito volantini. Era di sinistra, questo sì, ma non era un capo e neanche un sottuf­ficiale di quell'esercito con cui i golpisti si sentivano in guerra. E non sempre si per­deva tempo con i soldati semplici. Così, mesi dopo, lo rimisero in libertà.

Una mattina presto lo caricarono in macchina e lo riportarono a casa. A Raùl sembrò il film del sequestro visto all'indietro. Si ritrovò sul suo letto, esattamente come nella mattina di aprile. Aspettò ore per essere sicuro che fossero davvero andati via. Stava fermo tra le coperte, come un animale braccato. Poi si mosse, lentamente. Cercò Ricardo, che non c'era più. E gli venne il dubbio che Ricardo avesse interpretato male il messaggio. Che avesse pensato fosse rivolto a lui, solo a lui. Che non avesse capito che doveva immediatamente uscire di casa, attraver­sare a perdifiato la città, salire le scale della casa di Laura Estrela saltando i gra­dini e portarla via. Anzi portarli via, Laura Estrela e Patricio.

Lo fece lui, quel percorso. Lo fece guardandosi indietro, cercando la garan­zia di non essere seguito. Lo fece spezzet­tando quella corsa. Entrando e uscendo da tutte le porte possibili di tutti i grandi magazzini possibili. Non aveva più sapu­to nulla di Laura Estrela né della nascita del bambino, prevista per il mese di giu­gno. Ora era ottobre e l'estate si stava avvicinando.
Arrivò alla casa della sua donna ma, quando suonò, la porta che si aprì fu quel­la di un vicino che lo fece entrare silenzio­samente. Si conoscevano, era anche lui dell'università.
Gli raccontò che Laura Estrela era stata presa a maggio e portata via. La guardò dallo spioncino, in quella mattina di grida. La vide che si teneva la sua pancia grande e portava con sé, in una borsa aper­ta, i suoi maglioni e i vestiti di un bambino che ancora non c'era. Non sapeva dove l'a­vessero portata, sapeva solo che non era tornata.

La vita di Laura Estrela è finita quella mattina. Nessuno l' ha più vista. Nessuno ne ha più saputo nulla. Solo un cugino della madre di lei aveva sentito dire che le era toccato il destino di tanti altri. Essere caricata su un aereo, essere portata in volo sul mare ed essere gettata giù. Ora era lei, nella memoria di Raùl, come sospe­sa, immobile, tra il cielo e il mare.

La vedeva come quel giorno all'univer­sità. La vedeva piangere, come una stella può piangere. La vedeva piangere a bocca chiusa, come se fosse al funerale di un altro. Come se quelle lacrime fossero versa­te pensando non a ciò che stava per succe­dere, ma a ciò che era già successo. Era lì, sospesa, in attesa, con solo le sue lacrime. Raùl sapeva che il mare l'aveva inghiottita e che solo lei avrebbe potuto dirgli qual­cosa di Patricio.

Lo ha cercato per vent'anni. L'unica cosa che è riuscito a sapere è che Patricio è nato il 25 giugno del 1978. Una data che gli argentini ricordano perché fu allora che vinsero i campionati del mondo di calcio e festeggiarono, ubriachi di gioia, quella pausa di serenità. Nei momenti più duri Raùl immagina le grida di Laura Estrela che fa nascere Patricio sommerse dal rumore dei fuochi d'artifìcio. Forse i suoi carcerieri stavano brindando eufori­ci, in quel momento. E forse dal carcere, o dal campo di detenzione, si saranno sentiti i clacson dei tifosi e saranno sven­tolate le bandiere, le stesse in nome delle quali, nello stesso momento, un bambino appena nato veniva strappato a una madre che sarebbe stata uccisa.

Raùl pensava a quell'istante come alla fine di tutto. Pensava che chi aveva preso Laura Estrela l'aveva valutata come una semplice fattrice, portatrice di un dono unico, un Babbo Natale da uccidere. Ser­viva a fare Patricio, solo a quello. E Patri­cio serviva a fare felice qualcuno, solo a quello.

Sembrava di impazzire, a Raùl, quando immaginava i suoi primi denti, il suo primo giorno di scuola, i suoi primi gio­chi, le sue prime malattie. Quando imma­ginava le sue prime pagelle, i suoi primi calci al pallone, le sue prime letture. Quando immaginava le sue vacanze in famiglia, i suoi pranzi in famiglia, i suoi Natali in famiglia. La cosa che non sop­portava era pensare che qualcuno avesse potuto rimproverare Patricio, gli avesse fatto un torto senza che lui lo sapesse. Lui, Raùl, che non conosceva nulla di suo figlio, della vita nata quella notte nel parco. Lo faceva impazzire che non potesse riconoscerlo, chiamarlo, abbracciarlo.

Per anni era stato davanti a centinaia di scuole. Man mano, tenendo il conto, si spostava dalle elementari alle medie alle superiori. Guardava i volti dei bambini che uscivano cercando in essi il suo o quel­lo di Laura Estrela. Sentiva le loro risate e li vedeva abbracciare i genitori e andare via con loro. Restava sempre lì da solo, ultimo.

La sera, quando il dolore gli spaccava il cuore, prendeva l'automobile e correva per la città immaginando che dietro le luci accese di uno di quegli appartamenti forse c'era Patricio. Andava alle gare spor­tive dei ragazzi e all'uscita delle discote­che. Aveva messo un grande annuncio sul giornale, ma aveva ottenuto solo due invi­ti a popolari talk-show.

Una notte non riusciva a smettere di piangere, il cuore gli sembrava una spu­gna strizzata, il cervello premeva per usci­re dal suo spazio. Sentì un dolore, quello dell'assenza, che non era più sopportabi­le. Pensò a Laura Estrela in fondo al mare, perduta. E pensò a Patricio, in qualche uni­versità, ingannato. Aprì l'armadio dove teneva le cose a cui era più affezionato. Cercò il disegno che aveva conservato. La sera dopo uscì e trovò il primo spazio che andasse bene. Prese un pennello e lo immerse in una vernice blu, blu come il cielo di notte e un palloncino invisibile. Scrisse con tutta la forza che aveva «Patri­cio, te amo. Papà».

Poi chiuse gli occhi e respirò forte. Cer­cava l’unica aria che gli era rimasta. Quel­la della memoria.

Senza Patricio
Walter Veltroni

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