venerdì 10 novembre 2006

Canto disperato

Non prendo sonno e non ci provo neanche. Fisso il quadro davanti a me: case bianche dove forse qualcuno avrà sofferto come sto soffrendo io.

«Se posso ti chiamo.»
Non mi hai chiamato. Non hai potuto o, più sem­plicemente, non hai voluto.
Questa luce è troppo forte, mi fora la testa, ci scava un buco, dentro cui fischia il vento.
Quel vento sono i miei pensieri,
Sto affogando, darling.
Te lo scrivo su questo foglio bianco, un foglio che non leggerai mai.
Sto annegando dentro le parole che ti ho scritto e urlato contro. Parole che continuo a scrivere.
Qualche volta le hai ascoltate, e poi?
Poi, sempre, sei tornata da lui.
A fare cosa? Forse a contare i giorni che mancavano al vostro matrimonio?
Quanti sono?
Neanche uno.
Domattina metterai il vestito bianco che hai pro­vato almeno dieci volte e lui ti aspetterà all'altare. Sarà là come un casello autostradale, al di là del qua­le non ti sarà più possibile scegliere la strada che vuoi percorrere.

Per lui saranno gli angeli a parlare, non si accor­gerà di niente. Sarà innocente, pulito e pettinato, com'ero io il giorno in cui ci siamo conosciuti. Come quando ti chiesi di fare con me il giro di Venezia e tu mi rispondesti: «Bisogna che rientri, deve chia­marmi il mio ragazzo».
Quel ragazzo, domani a mezzogiorno e cinque, sarà tuo marito. Tu gli giurerai fedeltà, amore, ri­spetto e lui crederà nel tuo giuramento e non si scomporrà neanche quando qualcuno, dal fondo della chiesa, urlerà: «Fermate tutto».
Quel qualcuno sarò io.
Avrò l'aria di un pazzo. Come nei film, tutti si vol­teranno e chiederanno: «Ma chi è?».
Chi sono io?
Chi siete voi!

Sta' tranquilla. Una cosa è certa: non sono il tipo che fa cose del genere. Domattina sarò ancora a Ve­nezia, dove sono venuto ieri sera con il preciso intento di essere qui proprio nel momento in cui, di­cendo «sì» a lui, dirai «no» a me.
In albergo ho preso una stanza che conosci. La stanza dove abbiamo passato un'intera notte a par­lare, senza accorgerci che si era fatta l'alba. E tu, con­fusa, stupita, frettolosa, mi avevi lasciato con un ba­cio sulla guancia che non mi aveva fatto più dormire.
Sono qui, dove mi lasciasti il tuo numero di telefo­no dicendo: «Se risponde lui, riattacca».
Potevo scegliermi una storia più sincera, e invece decisi di scendere in quell'imbuto di mezze frasi e nascondigli.

«Lascialo» mi è scappato una sera. Mi sarei voluto mordere la lìngua, ma ormai era tardi.
Non rispondesti, facesti finta di niente.
Non mi chiamasti per tre giorni, io rimasi in piedi contro un cielo di cartone e sabbia. Piansi. Non lavo­rai per tre giorni.
Poi mi richiamasti, come se niente fosse, e io, come se niente fosse, ti rividi subito, di corsa. Ripresi a re­spirare, a vivere.

Perché mi è successo questo?
Perché continua a piovere e la notte è livida?

Ho cenato da solo. Non c'è niente di più triste.
Un cameriere stanco mi ha recitato a memoria il menu, come se fosse una poesia. Non l'ho lasciato fi­nire; l'ho stoppato sulla cotoletta alla milanese. Quando me ne sono andato, ho visto la sua silhouette incorniciata nel vano di una porta. Torna­va in cucina, dove forse vive un cuoco ancora più tri­ste di lui.
In piazza San Marco sono rimasto almeno un quarto d'ora col naso all'insù, nello sforzo di distin­guere una stella. Non ne ho visto nessuna.

Sono rientrato. Salendo le scale, gli occhi mi si so­no riempiti di lacrime. Mi sono fermato perché non riuscivo più a vedere. Ho tirato su col naso, come i bambini; come i bambini, ho pensato che l’unica a volermi bene veramente era la mia mamma.
Con la manica del cappotto mi sono asciugato il viso. Mi sono visto in uno specchio e mi sono fatto pena.
Mi sono messo a piangere ancora più forte.
Credevo che quelle lacrime non sarebbero mai fi­nite.
Invece, appena seduto sul letto, mi sono distratto con il modulo della colazione. A fianco del modulo, era appoggiata una matita sottile con il nome del­l'hotel.
Come i bambini che smettono di piangere se qual­cuno mostra loro un nuovo giocattolo, mi sono asciugato gli occhi e mi sono messo a far crocette.
Ero indeciso fra cappuccino e caffelatte. Ho messo una crocetta sul CAPPUCCINO e ho ordinato due CROISSANT.
Avevo cenato da poco, ma chissà perché il pensie­ro della colazione mi piaceva.
Mi sono sdraiato sul letto.
Dal climatizzatore usciva un getto d'aria caldissi­ma. Ho fatto lo sforzo di alzarmi per spengerlo.
Ho guardato fuori della finestra e mi sono fatto una domanda banale: «Che cosa farai in questo mo­mento?».
Chissà se hai più pensato alla volta che ti chiesi di sposarmi: credevi che scherzassi. Abbassasti gli oc­chi e dicesti: «Non posso».
«Perché?»
Non hai risposto.

Il giorno dopo trovai sotto la porta di casa un tuo biglietto: «Il nostro incontro è stato uno sbaglio. Fac­ciamo finta di non esserci mai conosciuti. Non capi­sco cosa voglio. Forse ti amo, ma so che non è giu­sto».
Lo strappai subito, archiviandolo nella memoria.
Cosa volevi dire?
Che cosa è giusto?
Che cosa non è giusto?
E forse giusto piangere a trentanni sulle scale di un vecchio albergo?
E forse giusto tagliare torte e farsi fare foto con i parenti dell'uomo che per due anni hai tradito?

Mi vengono in mente i film che abbiamo visto, stesso canale, tu a casa di lui, io a casa solo.

Totò.
Il più grande. Ho acceso il televisore: la testa non mi scoppierà più.
Totò in bianco e nero: perfetto, un'opera d'arte.
Mi viene addirittura da sorridere: un gioco di pa­role, uno sguardo a Peppino, la chiusa geometrica, come se quelle parole fossero disegnate dal più ge­niale degli architetti, rido. Mi sistemo meglio sul let­to, la pubblicità, mezzanotte: oggi è il 14 febbraio! Bravi, vi siete sposati proprio il giorno giusto, che bella pensata. Bravi, e una ragazza si lascia inqua­drare tutta nuda di spalle e mi assicura una vasca a idromassaggio confortevole.
Riparte il bianco e nero e io mi aiuto con una boc­cetta di grappa che ho estratto dal frigorifero tintin­nante di bottigliette.

«Rien ne va plus!», e il ticchettio della pallina im­pazzita mi diverte.
Ho già vinto otto milioni.
Un'americanona grassa fa le mie stesse giocate, e ogni volta che ritira la vincita mi strizza l'occhio.
È la seconda volta che entro in un casinò. La prima volta fu con te. Persi seicentomila lire. Le stesse che avevo deciso di perdere anche stasera. Invece sto vin­cendo sette milioni e quattrocentomila lire. L'americanona si è messa un bacio sulla punta dell'indice e me l'ha spedito.

Tutto per tutto-Otto milioni sul rosso. L'americanona è prudente e ne punta solo due.
Sto sudando...
«Rien ne va plus.»
«Rosso, rosso, rosso, rosso, rosso.»
ROSSO!
GOL!
E sono sedici milioni. Ma siamo uomini o caporali?

L'americanona si alza, mi raggiunge, mi butta le braccia al collo, mi bacia sulla bocca.
Ricambio il bacio, e per esagerare ci metto anche la lingua.
«Come with me,» dico all’americanona «che sta­notte c'ho sedici milioni da sputtanarmi.»

All'aeroporto mi prendono per pazzo.
Chiedo: «Esiste qualcuno che mi possa portare su­bito a Parigi?».
«Le potremmo organizzare un volo tra un'ora» di­cono. «Le costerebbe dodici milioni.»
«Perfetto.»
L'americanona ride: «You're crazy!».
«Yes.»

Dopo due ore l'aereo decolla.
All'aeroporto di Parigi qualcuno trova da ridire su non so quali documenti.
«Tanto tra due ore ripartiamo» dico.
Il mio pilota è perplesso, l'americanona ride: crede che si tratti di una battuta. L'americanona sotto la Torre Eiffel sembra un qua­dro di Botero.
Potremmo essere il ritratto perfetto di due dispe­rati e invece Parigi ci ha accolti di notte mettendo tutti a letto lasciandoci la torre illuminata che ci rac­conta quanti giorni mancano al duemila.

Stiamo tornando a Venezia.

Cara Sabrina, ti auguro di essere felice come lo so­no io, ora su quest'aerino tutto pelle, con questa sco­nosciuta tra le braccia.
Tra poco le dirò addio con un bacio sulle guance.
In quel momento tu starai dicendo: «Sì».

E accaduto quello che doveva accadere. Il destino aveva deciso che uscissero il quattro, il trentasei e poi tre volte il rosso. Era scritto, Sabrina. Non ti cercherò più.

Non sono ancora le otto.
Arriverò a Venezia in tempo per mangiare i due croissant.

Leonardo Pieraccioni
Trent'anni alta mora

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