domenica 5 dicembre 2010

A capo



Image by Polylooks

Esiste una spiaggia la cui sabbia è fine e bianca, una spiaggia così bella che le stelle marine la scelgono per arenarsi e così lasciarsi seccare dal sole quando esso è alto nel cielo.
E' qui che ogni giorno giungono a riva diverse bottiglie di vetro tappate con uno straccio e sigillate con una colata di cera liquida, quelle che naviganti annoiati o disperati naufraghi in balia delle onde riempiono di foglietti di carta ingiallita scritti con grafia tremolante difficile a interpretarsi.
Non semplici bigliettini bensì brandelli di vita intrappolati nel vetro trasparente ai quali sono affidate memorie e speranze, rimpianti.
Segreti.
Parole mai transitate nell'aria, frasi urlate con gli occhi.
Richieste di aiuto.

Un piccolo granchio rosso lungo la sua bizzarra traiettoria incontra quel che resta di una fiaschetta prima danneggiata dagli scogli, ora abbandonata in grosse schegge sul bagnasciuga. Il contenuto sta per andar perduto, inumidito dall'acqua salmastra che diluisce l'inchiostro nero dissolvendolo in tante luride lacrime che sporcano la carta e confondono le righe.

Accompagnata dal petulante sciabordio delle onde, la macchia rossa si muove rapida sul fianco fino a che si sofferma brevemente sul foglio quasi a volerne leggere il contenuto prima che il messaggio vada perso per sempre:

Scrivere.
Chi non sa leggere non sa scrivere.
Scrivere è dire, è dare un ordine al sentire, è comunicare il brivido che deriva dal capire.
Scrivere è pensare, valutare, confrontare
E' importunare le menti che trascurano il pensare.
Scrivere è procedere, è una valida alternativa al piangere, è aver il fiato corto senza correre.

Scrivere è come vivere, a volte è necessario mettere un punto.
Si va a capo e si ricomincia.
Iniziando con una lettera.
Maiuscola, rigorosamente e indiscutibilmente maiuscola.

Ora l'onda arriva lunga portando altra sabbia e bolle sul bagnasciuga, poi cambia idea e torna indietro, trascinando con sé in mare ogni cosa al suo ritrarsi.

Certi messaggi si ha il tempo di leggerli e coglierli disponendo di un'unica opportunità.
Quando questo non riesce, dispiace dover riconoscere il fatto di aver perso un'occasione.

Poco male.
In questo momento, da qualche parte, di fronte a una bottiglia di vetro vuota, una penna si è appena sollevata dal foglio lasciando impresso un'ultimo punto.

A capo.

lunedì 29 novembre 2010

Donne, du du du





Parlare con le donne

Troppi maschi si accostano alle donne oscillando fra gli estremi. O le adorano o le disprezzano. Vogliono dominarle o esserne dominati, mentre fanno molta più fatica a porsi di fronte a loro in condizione di parità.

È tipico dei deboli e dei complessati divinizzare le irraggiungibili e umiliare le disponibili. Succede a tutti, nell’adolescenza. Il guaio è quando continua a succedere dopo.

La maggioranza degli uomini parla continuamente di donne, ma quasi mai con le donne. Per questo le conosce così male. Perché non le ascolta. Eppure basterebbe poco. Leggere i libri scritti dalle donne: lì si impara tantissimo. E sfogliare qualche posta del cuore, che invece tanti maschi snobbano con un’alzata di spalle.

Entrare nell’animo femminile, individuando i meccanismi che lo guidano, è un viaggio affascinante che rende più completa la vita di chiunque abbia il coraggio e l’umiltà di compierlo. Si impara a considerare le donne per quel che sono: non creature da venerare o giocattoli da usare. Ma esseri umani come noi, solo più complessi di noi, perché oltre al meccanismo razionale del vivere sviluppano fin dall’infanzia quello intuitivo, che non si nutre di parole e schemi prefissati, ma di energie e suggestioni.

Non esiste universo più affascinante per un maschio, che solo conoscendo le donne potrà andare alla scoperta della propria parte nascosta e così completarsi ed evolvere. Per millenni la cultura maschilista si è opposta al confronto con un muro di luoghi comuni imposti attraverso la forza. Ma ora quel muro si sta sgretolando e alcuni uomini coltivano finalmente il desiderio di conoscere le donne di cui fino a ieri avevano paura.

Ne incontrerai uno anche tu. A patto di non sentirti né una vittima né un’incompresa.

Massimo Gramellini
La Stampa, 28/11/2010

lunedì 22 novembre 2010

Simpatiche chicche per cinefili

Paolo Sorrentino, attualmente impegnato nella lavorazione di This must be the place con l'attore americano Sean Penn, è senz'altro uno dei registi italiani più apprezzati all'estero. Poetico e particolarmente attento ad un'estetica che rasenta la perfezione, ho sempre creduto sin da quel suo Uomo in più che Sorrentino si distacchi di molto dal modo di fare cinema italiano dei nostri tempi. Il suo ultimo lavoro, Il divo, è stato definito da Variety un "capolavoro" (Jay Weissberg, 22/5/2008).

In un gentile cameo concesso a Boris (III serie, puntata n° 12) - serie televisiva comica italiana - c'era una gag esilarante in cui Sorrentino (attore di se' stesso) veniva scambiato per Garrone, autore di Gomorra. Come a dimostrare ironicamente un'imbarazzante ignoranza cinematografica, dietro le quinte della TV.



Giovedì scorso ad Annozero è successo qualcosa di simile, ma con il Ministro per i Beni e le Attività Culturali. Magari è stato solo un fraintendimento sui modi e tempi televisivi, ma l'effetto e accostamento è davvero notevole.


martedì 26 ottobre 2010

Il maratoneta



Il suo è un caso davvero singolare.

La cosa lo impegna da molto tempo, anni.
Ormai in città tutti lo conoscono, non ci fanno neanche più caso.
Lui fa parte del panorama, c’è sempre stato e sempre ci sarà.
Bizzarro certo, con questo suo infinito correre, correre… ma in fin dei conti innocuo.
E’ qui sta passando adesso, eccolo.

La sua è una corsa frenetica, i muscoli delle gambe tesi in uno sforzo estremo; il respiro affannoso e al tempo stesso l’assenza nello sguardo della benché minima volontà di fermarsi.
Slalom tra le decine di bambini che escono da scuola, attraverso il semaforo rosso schivando le auto in velocità, nessuna rilevanza agli insulti ricevuti.
Il sudore impregna la maglia e imperla il suo viso mentre un vecchio scuote la testa sconsolato.
Lustre vetrine scorrono colorate ai lati del campo visivo, chissà quali meraviglie racchiudono, comincia a piovere.
Tanto meglio, non vi è ora ragione per rallentare, il fresco agevola la prestazione fisica.
‘Che ci fa qui in centro tutta questa gente?’
Una ragazza di bell’aspetto si pone timidamente sulla traiettoria: immobile, esprime un sorriso sensibile e comprensivo. Pare voglia dire qualcosa.
Schivata.
Ora nel parco, la strada sterrata con la pioggia si è trasformata in una poltiglia melmosa, il cane di un passante abbaia furiosamente qualche secondo per poi acquietarsi.
Si unisce un altro ragazzo in tuta, sembra tenere il ritmo fino a quando sfinito, capitola con il classico ‘non ce la faccio più’. Il corridore saluta gentilmente. Con un cenno della mano, senza voltarsi.
E’ una fortuna non sentire la fatica. O meglio, sentirla e ignorarla come una canzone che non ti piace.

Concentrato sulla corsa, l’uomo in fuga non ricorda più perché abbia un giorno iniziato a correre, da dove sia partito, da che cosa stia realmente scappando, sempre nel caso stia scappando.
Il fatto è che non se lo chiede nemmeno.

Capita che,durante la sua singolare maratona, si renda conto che potrebbe dirigersi dove vuole; ecco, quelli sono i momenti durante i quali egli prova una fugace sensazione di libertà.
Altre volte si domanda dove stia andando. Ma solo per un istante.
Immediatamente guarda a terra e aumenta il passo.

Quando si fermerà?
Non lo sappiamo.
Ci sono dei giorni in cui il cielo è sereno e gli alberi del viale sono vestiti di bianco; se in uno di quei momenti lo vedi passare, accostati a lui e guardalo negli occhi sorridenti:
capirai che il suo sogno è tagliare il traguardo.
Ovunque esso si trovi.

lunedì 20 settembre 2010

Gli occhi di un bambino




Leggere queste righe è una cosa che possono fare tutti.
Riuscire a cogliere la serietà di ogni singola affermazione è invece, un privilegio che appartiene a chi sceglie di esaminarsi con gli occhi di un bambino.
Chissà, se lo facessero in tanti, forse vivremmo in un mondo migliore.
Comunque sia stata, nessuno dovrebbe dimenticare la propria infanzia. Nessuno.

“I bambini non temono il pianto:
piangono con spontaneità e non sfuggono ai colpi della vita
poiché amano il colpire e affrontano il rischio di essere colpiti.
E vengono colpiti dalle mani degli adulti,
dalla loro indifferenza,
dalla loro disattenzione mascherata di pazienza,
dall’ottusità delle loro buone intenzioni.
È facile colpire i bambini.

I bambini giudicano senza mai giudicare.
Quel che somiglia a un giudizio è per loro
soltanto un modo per abitare la paura.

I bambini considerano i genitori degli dei:
li temono, ne invidiano l’apparente onnipotenza,
li giustificano sempre,
ne sopportano ogni debolezza.

Non fategli male
la loro anima è l’anima del mondo.”

Maria Rita Parsi
Manifesto del Movimento Bambino


"Se un bambino vive sentendosi criticato, impara a condannare.
Se un bambino vive tra ostilità, impara a colpire.
Se un bambino vive sentendosi messo in ridicolo, impara a sentirsi colpevole.
Se un bambino vive in mezzo alla tolleranza, impara ad essere paziente.
Se un bambino vive essendo incoraggiato, impara ad avere fiducia.
Se un bambino vive sentendosi lodato, impara ad apprezzare.
Se un bambino vive in mezzo alla lealtà, impara ad essere giusto.
Se un bambino vive sentendosi sicuro, impara ad avere fiducia.
Se un bambino vive sentendosi approvato, impara ad essere se stesso.
Se un bambino vive tra accettazione ed amicizia, impara a trovare l'amore nel mondo."

Doret's Law Nolte


"I bambini non dovrebbero mai andare a dormire; si svegliano più vecchi di un giorno."

Johnny Depp
Neverland - Un sogno per la vita

lunedì 30 agosto 2010

Prima di dormire




Cose orribili
momenti esaltanti
ogni raffica di vento che ha soffiato sul viso.

Le persone
e i sogni
e i pregiudizi e i ripensamenti

il sollievo di non aver capito niente
la presunzione di potercela fare da soli
patetica illusione di non aver bisogno di nessuno

La confusione che si prova dopo aver subito un duro colpo
al cuore
al quale non si comanda ma che, arrogante, vuole comandare sempre lui

Stoccolma, neve gialla al tramonto
un'amica che non saprà mai di essere stata tale
la vergogna nascosta, non volevo

Considerato che non ti interessa stare al mio fianco, non mi va che tu mi segua da vicino, ora sparisci. L'ho pensato io per te: la tua strada è un'altra.

Un successo che si preferisce non condividere
Lasciare il proprio impiego per poter tornare a lavorare

Brillante.
Grazie. Pregare.
Prego. La grazia fatta persona.

Frasi sconnesse, verbi, aggettivi e soggetti alla rinfusa, virgole, punti fermi.
E' curioso, più la mente è stanca più si fatica a starle dietro.
Corre veloce e non ha voglia di dare spiegazioni.

Uno squillo, il telefono.
La sveglia suona.
Buona notte.

giovedì 15 luglio 2010

lunedì 12 luglio 2010

Militari senza armi





Giza. الجيزة Al-Gīzah per gli abitanti di questi luoghi.
Per il momento è ancora oggi, 3 luglio 1916 ma domani è alle porte, il sole sta abbandonando esausto questo mondo rassegnandolo agli inquieti sospiri delle brezze notturne.
Scrivo queste righe seduto sulla soglia della mia tenda mentre giovani beduini accendono il fuoco e vecchi mistici senza età guardano interrogativi l'orizzonte arancione, il mento abbandonato in una smorfia sul manico di bastoni nodosi.

Questa tenda è la casa che ho scelto così come la sabbia che la abita è l'ospite che non posso cacciare.
Queste righe contengono segni, parole e lettere indirizzate a ignoti e casuali lettori i quali spero di tutto cuore, trovando questo foglio arrotolato tra le fessure scavate dal tempo e dagli elementi nel granito di questa necropoli, decideranno di affidare loro un senso.
Quello che gli aggrada maggiormente, non importa.
La ricerca di significato è di per sé luce.
Non è come ci hanno raccontato, gli inferi non abitano il sottosuolo, devastano la superficie del nostro mondo e sono là, dove i significati non rivestono importanza alcuna, dove ciò che conta non è capire e non è sentire: dove quello che serve è riuscire a respirare un attimo in più del tuo nemico: l'inferno alberga nei campi di battaglia e giù nelle trincee.

Il mio nome è Patrick Linton Allen, sono un esploratore e sono inglese, sangue nobile, reputazione dubbia. Porto sulle mie spalle la vergogna di aver lasciato il mio posto nell'esercito, la guerra e l'orrore di una famiglia brutalmente dilaniata dai bombardamenti con la speranza di trascorrere ciò che resta della mia vita, piuttosto che a seppellire commilitoni e persone care, a dissotterrare preziosi tesori e testimonianze di mondi ormai perduti.

Continuo a cercare, tre mesi fa attraversando i ghiacci dei fiordi norvegesi, oggi trascinandomi sotto il sole d'Africa.
Vedo, processo con la mente, rielaboro con il cuore quindi scrivo.
Dissemino i miei pensieri, le mie sensazioni nei luoghi che visito, abbandono qui e là brevi note scritte sui fogli strappati da questa agenda senza sapere se qualcuno le leggerà.
Forse è mera vanità, in realtà vorrei che questo fosse il mio modo di contraccambiare a ciò che questi luoghi mi hanno gratuitamente donato:
una speranza.
Ho abbandonato tutto, le mie tenute, le scuderie e la servitù e sono diventato un disertore, un fuggiasco, un infame senza valore e senza dignità.
Non capiscono, accecati non vedono.

In queste ultime settimane ho risalito il fiume prendendo qualche appunto che qui riporto:

Sono le 3 del pomeriggio il sole è ancora alto; fin dove l'occhio giunge nessuna nuvola, solo un ibis attraversa l'azzurro del cielo limpido e si posa sul letto del Fiume, immergendo nervosamente il capo sotto il pelo dell'acqua.
Un vento caldo soffia sul viso abbronzato mentre passo dopo passo, cercando di non affondare nella sabbia incandescente, riesco a raggiungere la sommità della duna.
Ora che la prospettiva prende forma, la vista che mi si offre è unica ed emozionante: quattro statue alte venti metri sorvegliano l'ingresso di una tomba.
Abu Simbel, finalmente: mi rendo conto che le raffigurazioni riportate sui diari di viaggio che avevo consultato prima della mia partenza erano del tutto fuorvianti.
Mancavano i colori e le ombre.
Rapito, incapace di una qualunque reazione che non sia la muta ammirazione, contemplo la pietra gialla attraverso le lenti scure degli occhiali; quando torno in me prendo dallo zaino un'agendina nera dalle pagine del colore di quella pietra e scrivo una breve frase con una matita rossa.

E' qui davanti a me e la riporto su questo foglio, la mi mano trema ancora:
"Non serve l'uniforme, non serve l'odio, non c'è necessità di uccidere. Annientare il prossimo è fuggire da se stessi e non voler accettare che

in verità, le battaglie più grandi si combattono dentro di noi".


Sir Patrick Linton Allen
Esploratore, uomo, campo di battaglia
Militare senza armi

martedì 1 giugno 2010

Invio





"Nonostante l'Araba Fenice sia una creatura mitica partorita da un'umanità ingenua e superstiziosa, sarebbe argomento non soltanto erroneo ma del tutto approssimativo e superficiale volerla identificare quale antiquato vestigio di uomini rozzi e incolti".

E' un giovedì pomeriggio e nelle aule dell'Università i pochi studenti e professori rimasti boccheggiano oppressi dall'afa e dal classico torpore post-prandiale pomeridiano.
Non si può dire lo stesso dell'aula 8E. La dozzina di studenti che la occupa si è disposta sui banchi delle prime file e ascolta con viva attenzione un giovane professore, giacca e jeans, conosciuto per il passo sicuro ed elegante, rinomato presso studenti e colleghi per la sua capacità di tratteggiare la Storia per quello che appare ai romantici, un racconto avvincente denso di colpi di scena e capovolgimenti di fronte.
Peccato però, oggi qualcosa nel suo fare tradisce un'inquietudine sottesa, la sua voce solitamente calda e modulata vibra indecisa e si spegne stanca in corrispondenza delle ultime sillabe.

"Venerata dagli Egizi che la credevano originaria dell'Arabia, terra per loro sconosciuta e misteriosa, l'Araba Fenice si presenta nelle raffigurazioni che la ritraggono come volatile di sgargiante piumaggio e insolite abitudini, ascoltate a tal proposito cosa si legge qui nelle Metamorfosi di Ovidio, elegiaco romano vissuto a cavallo del I secolo avanti Cristo:

“ma vi è un unico uccello, che si rinnova e da sé si rigenera: gli Assiri lo chiamano Fenice; non di frumento né di erbe, bensì vive di lagrime di incenso e di stille di amomo. Quand'esso ha compiuto cinque secoli di vita, con le unghie e con il puro rostro si costruisce un nido fra i rami di un leccio o nella sommità di una flessibile palma. E non appena qui vi ha cosparso spighe di delicato nardo e trito cinnamomo e fulva mirra, sopra vi si adagia e fra gli aromi conclude il suo tempo."
Ora, accostando questa descrizione alle altre delle quali siamo in possesso, scritte da diversi autori nel corso di epoche non troppo distanti tra loro, giungiamo alla parte più significativa della sua vita, la morte; e non si tratta si un banale gioco di parole: l'Araba Fenice, al termine dei 500 anni di cui consta la sua esistenza, arde in un rogo dalle cui ceneri rinasce una nuova fenice in un ciclo perpetuo.
Bene, non vi dirò che questa leggenda corrisponde alla realtà, posso soltanto constatare con voi che essa esiste ancora ed è arrivata a noi attraversando terra, mare e tempo:
raffigurazioni dell'Araba Fenice si trovano oggi ovunque, in Europa, nel Nord Africa, in Oriente, nelle chiese e all'interno di catacombe della cristianità. Nelle piramidi, impresse sulle monete dell'imperatore Adriano. Sue raffigurazioni si trovano in edifici gotici, se ne cantano le gesta e i coinvolgimenti persino nei poemi inglesi fino a che nel 1600 essa diventa l'emblema dei Rosacroce, associazione segreta antesignana della massoneria francese.
E' evidente quindi che la leggenda ha in un certo senso lasciato il posto alla realtà, l'Araba Fenice è davvero immortale e infatti a suo modo esiste ancora.
Ma.
Ma, a meno che non vogliamo credere alla leggenda e affermare come una realtà di fatto la sua esistenza -non sia mai-, dobbiamo chiederci cosa ha reso immortale questo emblema semplice nella definizione e al tempo stesso profondo in quanto a significato.
Dicevamo all'inizio, stiamo parlando di un simbolo che come tale rappresenta un'aspirazione, un oggetto di fede e riflessione per tutti gli uomini a prescindere dall'epoca nella quale vivono: risorgere dalle proprie ceneri, ricomporsi dal nulla nel quale si è scivolati e librarsi nuovamente in volo, adornati di colori energici e vivaci è un'immagine motivante, un'ambizione che accompagna qualsiasi percorso di nobilitazione umana.

Ecco, questa è l'Araba Fenice, il disegno di un'idea, la speranza di risollevare la nostra condizione per quanto disperata sia la situazione nella quale versiamo, in sostanza essa raffigura qualcosa di cui nessun uomo può fare a meno, soprattutto oggi che due pericolosissimi estremi, vergogna e gloria, ci confondono in egual misura... ehm scusate, per oggi concludiamo qui. Pagine 172 a 179 del libro di testo".

Silenzio. Sguardi che seguono l'insegnante che si riavvicina alla cattedra visibilmente turbato. Poi il trillo della campanella che sancisce la fine delle lezioni, qualche discreto accenno di saluto da parte degli studenti dopo di che nell'aula deserta resta soltanto il professore.
Esaminato pensierosamente il display del cellulare, le sue dita scorrono veloci sulla tastiera componendo un breve messaggio di testo: "E' vero, la maggioranza di noi nasce e muore una volta sola. Ma se decidi di ribellarti ai tuoi errori, se ritieni di aspirare a qualcosa di meglio, se davvero desideri rinascere, allora dovrai dimostrarti coraggioso ed essere disposto a morire. Tutte le volte che sarà necessario." Invio.

lunedì 10 maggio 2010

Inception


Cristopher Nolan sta per tornare e con lui le atmosfere avvolgenti di Hans Zimmer.
Torna il team di attori e tecnici de "Il cavaliere oscuro", stesso stile, stesso spettacolo.

Per quanto mi riguarda, senza togliere nulla ai libri, il Cinema è la fabbrica dei sogni per eccellenza.
Nolan oggi riesce meglio di Spielberg: costruisce mondi paralleli ma realistici, esprime una fantasia del tutto plausibile, quindi coinvolgente.

Il prossimo Batman uscirà il 20 luglio 2012 e molto probabilmente la squadra sarà ancora la stessa.
Per ora... Inception



martedì 27 aprile 2010

Michele Kohlhaas



Michele Kohlhaas era allevatore di cavalli ed aveva una visione ricorrente: un cerchio con i suoi cavalli e là in mezzo, lui ci vedeva Dio. Nel senso di ciò che è giusto, perfetto: un impeccabile cerchio.

Qualche giorno fa mi è capitato un po' per caso di ascoltare Marco Baliani che leggeva una sua versione di Michele Kohlhaas, leggermente adattata al teatro. Fu così che lui vent'anni fa diede inizio al teatro narrazione in Italia.

Al di là del suo valore storico-teatrale, comunque, la storia di Kohlhaas è una storia struggente, romantica. Politica, in un certo senso. Perché il protagonista lotta contro l'Autorità in nome di una Giustizia impossibile - “Se la vendetta non è il desiderio dei giusti, allora qual'è il desiderio dei giusti?” - chiede Kohlhaas, all'epilogo del suo disperato tentativo di riparare il cerchio della giustizia… Da ascoltare se non altro per capire cosa vuol dire leggere bene!

Per ascoltare, clicca qui.

Samuel

martedì 6 aprile 2010

Via col vento



Non essere triste Mrs. O’Hara.

Se vuoi piangi ma impara a non annegare nelle tue lacrime.
Datti lo slancio e impara a nuotare, alza la testa e quando serve, prendi il respiro.
Vedersi più ricchi quando in realtà si ha la netta sensazione di aver perso tutto è difficile, lo so.
Ma oggi sei meno incosciente. Pensaci.
Hai imparato a non idealizzare imprudentemente fascinosi stranieri.
Guardi oltre, ora sai distinguere l’attrazione dall’amicizia, riconosci il fatto che hai confuso la stima con l’amore.

Sorridi, forse è definitivamente cessato il tempo in cui scambiavi le emozioni per i sentimenti.
Le emozioni ti colpivano rapidamente, a volte ti facevano male e ti lasciavano stordita.
I sentimenti no.
Essi assistono da vicino, ti seguono per giorni, mesi, anni e quando sono nobili e profondi trovano la forza di sollevarti in alto; non importa quale sia il tuo peso, quanto sia ripida la salita oltre le nuvole; a certe altitudini il calore del sole non brucia: scalda.


Ripensa a coloro che rivelano nei tuoi confronti un atteggiamento freddo e scostante: hai la sensazione che ti considerino una mendicante a cui fare l’elemosina, vero?
Apri gli occhi e rielabora la scena, vedi? quel poco che ti hanno dato non era elemosina: era tutto ciò che avevano.
Ed era poco meno di nulla.
Perché? ti chiedo. Cosa ti ha fatto sperare che avessero chissà quali tesori da condividere?
Le fantasie appartengono al sonno, la veglia non consente leggerezze.

Ma ora riposa Rossella, dormi.
Chiudi gli occhi riempiti del nero e dell'arancione del tramonto.
E non temere.
Dopo tutto, domani è un altro giorno

mercoledì 24 marzo 2010

Autoritario vs Autorevole



Autorità e stupida arroganza.
E' inaccettabile, eppure le due cose coincidono da sempre.
In ufficio come in officina. Spesso nelle famiglie.
Ovunque.
Imporre, intimidire, ricattare psicologicamente o materialmente, in modo più o meno velato: i mezzi con i quali viene generalmente esercitata l'autorità sono sempre i medesimi.

Questo video ha fatto il giro del mondo.
Molti di quelli disgustati alla vista di queste immagini saranno stati gli stessi che l'indomani, in un sussulto di superbia avranno scaricato sui loro sottoposti tutta la loro incapacità di essere reali punti di riferimento, imponendo, intimidendo, ricattando psicologicamente o materialmente, in modo più o meno velato.
L'autorità che ci opprime è sempre quella altrui.
Già, potranno anche essere autoritari in virtù delle responsabilità affidate loro.
Autorevoli non lo saranno mai.

mercoledì 17 marzo 2010

Post che non vale la pena di leggere




Carissimo Andrea,
vivissime congratulazioni per il successo del tuo blog, anche se, a dirla tutta lo so che la metà delle visite sono tue, un quarto sono di Samuel, qualcuna dei tuoi parenti e quelle che rimangono di tutti coloro che sono arrivati sul blog per sbaglio (tra questi ultimi includo anche Alberto); ti stimo molto, innanzitutto per il tuo nome, che mi piace molto. Pensa che si chiama Andrea anche il pesce rosso post-cloro che tengo sul top della cucina!
E' un po' come te, sulle prime un po' scostante ma di grande compagnia quando cessa di sentirsi un pesce fuor d'acqua.

Ti confesso che ti seguo da tempo e con costanza, ero dietro di te anche venerdì scorso, in coda alla posta; tu avevi il numero 48B, io invece il 51B; sento che questo vuole dire qualcosa su di noi; certo, a sentire quelle streghe delle mie amiche si tratterebbe del semplice fatto che siamo arrivati pressapoco alla stessa ora... uff, quanto sono ciniche...
So che tieni molto al rispetto delle dovute distanze quindi tenterò di non essere inopportunamente sfacciata.
Ecco perché vorrei dirti innanzitutto che, oltre a trovarti maledettamente e fuorileggemente affascinante, credo che tu sia una persona estremamente inteligiente, si capisce dalla tua verve che hai una cultura e padronanza dialettica forse persino superiore a quella di un partecipante a un reality qualunque.
Su questo concorda anche la mia vicina di casa, si chiama Vitina Obliqua - classe 1927, una donna di grande esperienza, la quale mi ripete spesso che dovrei imparare da lei a capire come si fa a riconoscere un uomo da un pupazzo. Eppure continuo a nutrire fondati dubbi sulla sua autorevolezza.
(Per dire... Vitina non ha mai avuto un fidanzato e va ancora a dormire abbracciata a Garfield).

Dopo questa brevissima premessa vorrei passare alla ragione di questa mia email.
Anche a me piace scrivere al computer e comporre puzzle dal lato cieco, però devo ammettere che ho qualche difficoltà.
Con lo scrivere intendo.
L'ultima cosa che ho scritto è stata la lista della spesa e pensa che mi sono pure dimenticata di segnare le fette biscottate alle prugne! Gnente, come scrittrice mi sento un disastro.
E qui intervieni tu.
Potresti gentilmente e cortesemente e individualmente aiutarmi a diventare una scrittrice (di post)?
Come si fa a scrivere un post?
Dove nasce l'idea attinente? Soprattutto chi è il padre?
Perché la Sindone viene sempre celata dietro un lenzuolo?
Gocciole o Pan di Stelle?

Ringraziandoti per la tua molto attenta attenzione ti saluto e ti mando un bacio rispettoso sulla guancia.
Con immodificabile fiducia,

Ignazina Anchenò, bidella.
101010101 Vimerdrate Lido (RR)


Gentile Ignazina,
è con il cuore colmo di qualcosa che ti ringrazio per lo smisurato affetto nei miei confronti che stilla copioso da ciascuna delle tue parole.
Non cederò alla tentazione di restituirti complimenti gratuiti, quasi che il semplice averli da te ricevuti dovesse spingermi obbligatoriamente a ricambiarteli. No, non lo farò.
Mi permetto soltanto di dire che sei la persona più meravigliosa che io abbia avuto la fortuna di conoscere nella mia, seppur breve, spericolata quanto sconsolata esistenza.

La tua missiva (!) pone quesiti che meritano risposte concise e soprattutto serie.
Mi chiedi come si scrive un post.
Tanto per cominciare è necessario sfatare almeno due luoghi comuni:

- per scrivere un post è necessario essere laureati summa cum laude in Scienze Filosofiche all'Accademia Nazionale dei Lincei di Roma.
Falso.
L'unico attestato di cui può fieramente fregiarsi lo scrivente (cioè me) è il diploma di "Pesciolino" conseguito durante il corso di nuoto seguito presso la piscina comunale all'età di 7 anni.
Questo dimostra la validità di un troppo sottovalutato luogo comune: il nuoto è veramente uno sport completo.

- per scrivere un post è necessario disporre di un'idea degna.
Falso.
Ciò di cui hai bisogno se vuoi scrivere un post è in realtà un sentimento, preferibilmente negativo barra opprimente.
Le parole devono uscire come lapilli dal vulcano, come proiettili dalla pistola, devono ustionare come schizzi d'olio bollente da una padella di sofficini.
Esempio: scrivere "i giardinetti davanti a casa mia si sono riempiti di candide margheritine" può essere vero ma non è interessante.
Diversamente, scrivere "nei giardinetti davanti a casa mia ci sono ciuffi di siringhe sporche di sangue", anche se lontano dalla realtà, risulta essere stuzzicante, trasferisce al lettore un'emozione totalizzante, la paura, un senso di smarrimento e la sensazione che lo scrivente si stia occupando del suo benessere in quanto denuncia ad alta voce una minacciosa fonte di pericolo (pazienza se non è la verità).
Dunque l'equazione è: meno margheritine, più siringhe sporche di sangue, uguale post interessante.
Devi diventare un'eroina (eh eh battuta...) che denuncia tutto il denunciabile possibile, il degrado della società ma anche il degrado della degradazione del degrado.
E' quindi evidente che per stimolare l'indignazione (ovvero l'interesse) generale, non servono notizie reali.
Certo un'idea ti serve ma dopo, quando e se sarà necessario giustificare quello che hai scritto, nel caso qualcuno ingenuamente dovesse prenderti sul serio e farti complimenti o chiederti ragioni riguardo a ciò che hai scritto.

Vedi Ignazina, un post si può definire un buon post quando il lettore riesce a immedesimarcivicicisi.
I contenuti rappresentano il punto di contatto tra chi scrive e chi legge, mentre la possibilità di lasciare dei commenti consente il ribaltamento dei ruoli, dando spazio a un continuo confronto tra retaggi ed esperienze più o meno simili tra blogger e lettori.

Un'ultima chicca: se vuoi scrivere un post di interesse devi avere all'attivo una consistente esperienza in fatto di dolorosi fallimenti personali: almeno almeno devi aver provato nella tua vita quella annichilente sensazione di frustrazione e impotenza legata al meschino tentativo di cambiare una persona.
Quando raggiungi la consapevolezza di aver sprecato il meglio di te, le tue energie non rinnovabili per ottenere il nulla, dopo che ti sei rivolto la frase 'Tanto lui/lei non cambia' quando ormai non serve più a niente, ecco, in quel momento ti sei guadagnato la patente di scrittore.

Da quel momento lo schema di pensiero che porta alla realizzazione di un post sarà invariabilmente il seguente:
1 - ti imbatti in qualcuno che pensa di essere felice;
2 - cerchi di capire dove sta sbagliando;
3 - lo aiuti ad aprire gli occhi.

Tre passi che ti garantiranno un successo letterario pari se non anche superiore al mio.

Bene, spero che i miei suggerimenti ti riescano utili, a te come a tutti quelli che in questo momento si stanno chiedendo come hanno fatto ad arrivare a leggere fin qui.
Non è colpa mia, siete voi che avete ignorato il titolo.

Ve lo chiedo come una figlia, come una sorella: se avete dei quesiti e volete che io condivida con voi parte della mia sapienza così come ho fatto con Ignazina non trattenetevi.
Scrivetemi qualunque cosa, può andar bene anche un pizzino o un post-it che non si incolla più.
E mi raccomando, nello scrivere come nella vita, siate voi stessi.
Appena avrete capito cosa significa.

Andrea

"L'uomo è tanto meno perfetto quanto più parla in prima persona; dategli una maschera e vi dirà la verità."
Oscar Wilde

mercoledì 3 marzo 2010

Sì, ma alla fine?



Vengono chiamate favole, ma più spesso si tratta di fiabe.
Non so quale sia la situazione oggi, ma una volta si raccontavano ai più piccoli, così che mentre il bambino ascoltava rapito, il genitore, nel ripeterla, si accorgeva che ne stava capendo il reale significato soltanto in quel momento, a 15 - 20 anni di distanza da quando l’aveva sentita per la prima volta.
Di una fiaba si ricorda più agevolmente il finale, meglio che i singoli passaggi narrativi, forse per il fatto che generalmente la storia raccontata si risolve in un epilogo positivo e rassicurante.

Della favola, così attentamente congegnata da autori di tempi e profondità ormai lontane, sembra purtroppo interessare soltanto l'agognato finale.
E così, quando inizi a raccontare una storia a qualcuno che già la conosce, quello che fa? Ti dice: “Ah ma stai parlando di quella che finisce così e così, giusto?”
Il finale. Non c'è niente da fare, per individuare una storia tra le tante si fa istintivamente riferimento a come termina, tralasciando i passaggi intermedi come se fossero elementi secondari.

La mia occupazione (auto-conferitami in mancanza di più appassionanti distrazioni) quale pedante polemista, mi impone però di ragionare secondo uno schema in controtendenza.
Continuo a pensare che in una narrazione ciò che conta sia la storia, il suo svolgimento, a prescindere da come questa finisca.
Nessuno si sogna di limitare la lettura di un libro alle sue ultime tre pagine: il finale acquisisce consistenza e spessore soltanto dal momento in cui si è riusciti a cogliere e realizzare nella propria mente tutto ciò che lo precede.

E questo vale soprattutto per chi la fiaba non si limita a raccontarla ma ha la fortuna di viverla.

Oppure, più tragicamente, di ricordarla soltanto.

"E vissero."
FINE

martedì 9 febbraio 2010

Moby Prince - Il naufrago


R. Mendicino - Ormeggio


Atto primo - CP250


Atto secondo - Il naufrago

Livorno, 10 aprile 1991.

Avevo all'epoca una decina d'anni e di questa storia ricordo di aver sentito qualcosa.


Non avevo capito nulla.

C'è una motovedetta, la CP250 della Capitaneria di Porto che indugia timida, dolcemente cullata dalle quiete onde del mare nei pressi di un'enorme petroliera in fiamme il cui nome è Agip Abruzzo.

Il comandante della Capitaneria, a bordo della CP250 con il suo equipaggio, non fa sentire la sua voce alla radio, non dà indicazioni di sorta, non coordina i soccorsi.
Fiamme. Silenzi. Morte.

E c'è poco lontano una piccola imbarcazione (appena sette metri di lunghezza) che solca le acque del porto, sono le ore 23 circa del 10 aprile 1991. La dirigono due ormeggiatori risolutamente diretti verso la motonave Moby Prince, divenuta ora una torcia consumata da lingue di fuoco, tormentata da un desolante isolamento.
Carica di 141 persone soffocate dal fumo e accerchiate dalle fiamme.

Per quanto assurdo, quello che sto per esporre è avvenuto, dunque va raccontato. Così com'è.
Nei minuti successivi all'incidente un'unica imbarcazione raggiunge la nave passeggeri incendiata: si tratta di una barchetta con a bordo due ormeggiatori senza bussola né estintori a disposizione che gira intorno alla Moby Prince, desolata e spettrale come un villaggio abbandonato dopo il saccheggio.
Richiamati da alcuni fischi lunghi e ripetuti i due uomini si fanno più vicini, individuando così una sagoma umana aggrappata alla ringhiera di poppa.
E' uno dei mozzi presenti sulla Moby Prince. E' sano e salvo. L'unico.

Sono le 23:42 e uno degli ormeggiatori si sgola alla radio sul canale d'emergenza, quello ascoltato da tutti: "CP siamo alla tua sinistra! Punta sulla nave per favore! C'è ancora gente, ci dice questo naufrago che abbiamo raccolto!" e ancora "Abbiamo raccolto un naufrago, dice che c'è ancora gente sulla nave! Sto parlando della nave che era in collisione!".
Dalla CP nessuna risposta.
Quella stessa voce si rivolge allora a chiunque altro possa sentirla in quei terribili attimi: "Un naufrago l'abbiamo già raccolto. Adesso abbiamo una CP che indugia! Andare a poppa della nave! Il naufrago ci dice che ci sono ancora dei naufraghi da salvare!".

Sono le 23:55 e l'ormeggiatore continua a sollecitare risposte. Che però non arrivano:
"Abbiamo raccolto un naufrago, ha detto cinquanta passeggeri!".
Molti ascoltano, anche chi 'indugia'.
Nessuno risponde.

Quando arriva finalmente una risposta, essa giunge dalla Capitaneria a terra e non dal comandante del porto a bordo della CP250. L'ufficiale di Marina chiede se ci sono altri naufraghi, provando così che le precedenti comunicazioni non erano cadute nel vuoto ma erano state udite da chi era sintonizzato alla radio.
La risposta dell'ormeggiatore questa volta rivela un atteggiamento completamente diverso da quello tenuto fino a quel momento: l'agitazione e l'impeto dimostrati precedentemente hanno a quanto pare lasciato il posto all'amara rassegnazione:
"Il naufrago ha detto che sono tutti morti bruciati".
Sono le ore 23:58.
Abbandonata ogni speranza di salvare delle vite nel giro di circa un quarto d'ora.
Incomprensibile.

Poco male, qualcosa ora si muove.
Su indicazione del comandante la CP250 finalmente riparte decisa.
Beh era ora che agisse in qualche modo.
E' il caposquadra dei Vigili del Fuoco presente a bordo dell'imbarcazione e impaziente per quell'inspiegabile sosta che chiede al pilota qual'è ora la destinazione:
"Il comandante deve rientrare in porto" è la risposta.

Proprio così.
Il comandante ordina il suo rientro in porto, la conferenza stampa sta per cominciare e ci sono un sacco di cose da raccontare.

Continua

lunedì 1 febbraio 2010

Pretese



"Tu pretendi troppo."

No, ti sbagli.
Sei tu.
Tu hai rinunciato alle tue aspirazioni.
Tu hai scelto di assecondare l'impazienza, il timore e, ora che paghi la tua arroganza, tenti di scrollarti di dosso la tua insoddisfazione tacciando il prossimo di inconsistenti pretese.
Se tu dovessi rimanere indietro, CHI ti aspetterebbe?

We said we'd walk
together
baby come what may
That come the twilight
should we lose our way
If as we're walking
a hand should slip free
I'll wait for you
And should I fall behind
Wait for me

We swore we'd travel
darlin' side by side
We'd help each other
stay in stride
But each lover's steps fall so differently
But I'll wait for you
And if I should fall behind
Wait for me

Now everyone dreams of a love lasting and true
But you and I know what this world can do
So let's make our steps clear that the other may see

And I'll wait for you
If I should fall behind
Wait for me

Now there's a beautiful river
in the valley ahead
There 'neath the oak's bough
soon we will be wed
Should we lose each other in the shadow of the evening trees

I'll wait for you
And should I fall behind
Wait for me

Darlin' I'll wait for you
Should I fall behind
Wait for me
Abbiamo detto che avremmo camminato insieme,
tesoro accada quel che deve
Che quando arriva il crepuscolo,
se dovessimo perdere la nostra via
Se, mentre camminiamo,
una mano dovesse scivolare dall'altra
Io ti aspetterò
E se dovessi restare indietro
Aspettami

Abbiamo giurato che avremmo viaggiato,
tesoro, fianco a fianco
Che ci saremmo aiutati l'un l'altra
a mantenere il passo
Ma ogni amante muove i propri passi
in modo differente
Ma io ti aspetterò
E se dovessi restare indietro
Aspettami

Sai, ognuno sogna
un amore duraturo e vero
Ma io e te sappiamo cosa
questo mondo può fare
Perciò muoviamo i nostri passi in modo chiaro, cosicché l'altro possa
vedere

E io ti aspetterò
Se dovessi restare indietro
Aspettami

C'è un bellissimo
fiume
nella valle di fronte
Lì sotto il ramo
della quercia
presto ci congiungeremo
Se dovessimo perderci l'un l'altra
nell'ombra
degli alberi della sera

Io ti aspetterò
E se dovessi restare indietro
Aspettami

Mia cara io ti aspetterò
Se dovessi restare indietro
Aspettami

If I Should Fall Behind - MTV Unplugged, 1992
Bruce Springsteen, The Boss

venerdì 15 gennaio 2010

Moby Prince - CP250



Photo by Flickr

Nonostante siano trascorsi una ventina d'anni, il ricordo di quegli accadimenti è ancora vivo.
Perché esistono delle carte e delle testimonianze.
In verità, in questi casi, il reale luogo dove sono celate informazioni scomode, sovversive della quiete imposta dagli omertosi silenzi, non sono recuperabili nella memoria di qualche sopravvissuto o dai racconti di casuali testimoni oculari.
Sopravvivono nelle carte giudiziarie e nelle ricostruzioni giornalistiche di avventurosi e spericolati cronisti, persone come Enrico Fedrighini autore di Moby Prince: Un Caso Ancora Aperto.
Le bugie vengono a galla, i nodi al pettine, il puzzle continua a comporsi di nuovi pezzi rivelando un'immagine completamente diversa da quella stampata sulla scatola.
Come per IH-870 la mente umana non ammette zone oscure, quello che non si vede, ciò che non si coglie nell'immediato riesce a essere sempre più affascinante di ciò che appare evidente o che perlomeno sembra esserlo.
Non esistono tragedie che non ci riguardano.


Atto primo - CP250

C'è una motovedetta, la CP250 della Capitaneria di Porto che indugia timida, dolcemente cullata dalle quiete onde del mare nei pressi di un'enorme petroliera in fiamme il cui nome è Agip Abruzzo.
Il comandante della Capitaneria, a bordo della CP250 con il suo equipaggio, non fa sentire la sua voce alla radio, non dà indicazioni di sorta, non coordina i soccorsi.
Fiamme. Silenzi.

E' la rada del porto di Livorno e sono da poco passate le ore 23 del 10 aprile 1991; il registratore della stazione costiera IPL Livorno Radio e tutti i marittimi sintonizzati in quel momento sul canale radio 16 VHF (quello utilizzato per le comunicazioni di emergenza) hanno sentito il comandante della petroliera che si sgolava: "Una nave ci è venuta addosso!".

Ha preso così il mare una lancia di salvataggio che si è affiancata all'Agip Abruzzo per consentire il trasbordo dei naufraghi. I soccorsi funzionano: prima di mezzanotte il comandante e il suo equipaggio sono già stati tratti in salvo sulla terra ferma. L'incendio sulla petroliera alta quanto dieci piani e illuminata a giorno da un impianto luce di 40000 Watt, lunga 280 metri e carica di 82000 tonnellate di petrolio Iranian Light sta per essere domato e tutti i marinai sono in salvo.
Meno male, poteva scapparci il morto.

Un attimo, la nave.
No, non questa nave, l'altra.
La registrazione radio della comunicazione del comandante dell'Agip Abruzzo parlava di uno scontro in mare: "Una nave ci è venuta addosso!"
Quella nave.
Dov'è?
Come dov'è? Dove vuoi che sia andata a finire una nave passeggeri, dopo la collisione con una petroliera di quella stazza?
La motonave Moby Prince inondata dal carburante Iranian Light fuoriuscito dalla petroliera dopo l'urto vaga alla deriva con 141 persone a bordo, uomini, donne e bambini vicine a morire senza nessuno che tenti di salvarle.

C'è una motovedetta, la CP250 della Capitaneria di Porto che indugia timida, dolcemente cullata dalle quiete onde del mare nei pressi di un'enorme petroliera in fiamme il cui nome è Agip Abruzzo.
Il comandante della Capitaneria, a bordo della CP250 con il suo equipaggio, non fa sentire la sua voce alla radio, non dà indicazioni di sorta, non coordina i soccorsi.
Fiamme. Silenzi. Morte.