mercoledì 12 dicembre 2007

Bambini


Adamo ed Eva vengono cacciati dall'Eden, immagine di Gustav Dorè

Si può fare, sembra convenire, quindi si fa.

L'espressione artistica intesa come mezzo per esprimere qualunque concetto, senza fastidiose implicazioni etiche e morali.
Le conquiste tecnologiche usate come tramite per raggiungere ciò che non si conosce, senza fastidiose implicazioni etiche e morali.
Il potere politico, esercitato come raggiungimento del bene del singolo e della nazione, senza fastidiose implicazioni etiche e morali.
La finanza intesa come sistema atto a produrre ricchezza, senza fastidiose implicazioni etiche e morali.
La fama e il successo ricercati a ogni costo come conferma del proprio diritto di esistere, senza fastidiose implicazioni etiche e morali.

Si può fare, sembra convenire, quindi si fa (senza fastidiose implicazioni etiche e morali).



Il ragionamento istintivo di qualunque bambino che sa di non essere visto.
E di tutti quegli adulti che rendono conto soltanto a se stessi.

lunedì 10 dicembre 2007

Puro stile

Apologize (One Republic)

I’m holding on your rope
Got me ten feet off the ground
And I’m hearing what you say
But I just can’t make a sound
You tell me that you need me
Then you go and cut me down
But wait…
You tell me that you’re sorry
Didn’t think I’d turn around and say...

That it’s too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologize, it’s too late

I’d take another chance, take a fall, take a shot for you
And I need you like a heart needs a beat
(But that’s nothing new)
Yeah yeah

I loved you with a fire red, now it’s turning blue
And you say
Sorry like an angel, heavens not the thing for you,
But I’m afraid

It’s too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologizes, it’s too late
Woahooo woah

It’s too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologize, it’s too late
I said it’s too late to apologize, yeah yeah
I said it’s too late to apologize, a yeah

I’m holding your rope
Got me ten feet off the ground…


Scusarsi (One Republic)

Mi tieni sulla corda
Mi tieni 10 piedi sopra terra
Sto ascoltando quello che dici
Ma non riesco ad emettere alcun suono
Dici che hai bisogno di me
Poi vai e mi stronchi
Ma aspetta… dici che ti dispiace
Non pensavi che mi sarei girato e avrei detto…

Che è troppo tardi per chiedere scusa, è troppo tardi
Che è troppo tardi per chiedere scusa, è troppo tardi

Vorrei cogliere un’altra opportunità, innamorami
Prendere una sbandata per te
E ho bisogno di te come un cuore ha bisogno di battere
(ma questo non è niente di nuovo)
Yeah
Ti amavo con il colore rosso del fuoco, ma ora esso sta diventando azzurro
E tu hai detto
Scusa come un angelo, ma il cielo non è cosa per te
Ma sono spiacente
E' troppo tardi per scusarsi , è troppo tardi

Ho detto che è troppo tardi per scusarsi , è troppo tardi
E' troppo tardi per scusarsi , è troppo tardi
Ho detto che è troppo tardi per scusarsi , è troppo tardi
Ho detto che è troppo tardi per scusarsi yeah yeah
Ho detto che è troppo tardi per scusarsi a yeah

Mi tieni sulla corda,
Mi tieni 10 piedi sopra terra

mercoledì 5 dicembre 2007

Buongiorno #3

Buongiorno a chi già da questa mattina ha intuito che sarà una giornata difficile; il fatto di essersi sfregiati la faccia radendosi è sicuramente emblema di un disagio più profondo.

Buongiorno ai corteggiatori monoobiettivo che danno il meglio di loro stessi quando non serve.

Buongiorno a te che imputi agli altri difetti e mancanze che invece ti appartengono; concordo con te, è sicuramente più comodo che il mettersi in discussione e poi, dì la verità, ormai ti sei affezionata all'idea di essere incompresa, ti percepisci più profonda.

Buongiorno caro il mio ostentatore di allegria fuoriluogo, guarda che non c'è niente di male nell'ammettere a se stessi di non avere amici, potrebbe essere uno spunto per fare il punto della situazione su chi sei e che cosa vuoi veramente.

Buongiorno a quel ricco che caccia via i pezzenti che bussano alla sua porta in cerca di aiuto perchè non resiste alla vista di chi soffre così tanto.

Buongiorno a chi crede che tra il dire e il fare vi sia di mezzo "e il".

venerdì 23 novembre 2007

Daniel



Daniel, per gli amici Degnol, nome d'arte Daniel Faw, è uno a cui piace scrivere musica. Gli ho chiesto se potevo pubblicare una delle sue creazioni elettroniche. Ha risposto di sì.


Bad Day

Questa è una canzone che ho scritto per esprimere una sorta di rabbia interiore, causata dal mancato raggiungimento di un obiettivo ben preciso.
"Bad day" è una pessima giornata, uno di quei momenti in cui ti fermi a riflettere sul passato, sulle scelte che non rifaresti, sullo stato degli affetti e sulle grandi questioni che vorresti risolvere...
La sensazione a volte è quella di chi si sente solo, fermo, paralizzato, per così dire in una fase di stallo; si è di fronte a un mondo che continua ad andare avanti istericamente e ci si ritrova lì, a contemplare situazioni difficili che si rivelano per quello che spesso in realtà sono, logica conseguenza delle decisioni prese.


Mettere in discussione la propria capacità di saper stare al mondo, sentirsi in grado di imparare qualcosa anche quando non ci si capisce più niente, ovvero: saper rimanere sotto la pioggia battente senza ombrello ma con la speranza che prima o poi esca il sole.


Daniel Faw



giovedì 22 novembre 2007

Io odio Novembre




Io odio Novembre.
A Novembre i primi due giorni sono dedicati a che non c'è più.
E questo è tutto un dire di ciò che ci aspetta nei restanti 28 giorni.
Novembre è inutile, basterebbe aumentare di 15 giorni l'uno i mesi di ottobre e dicembre e nessuno ne sentirebbe la mancanza.
A Novembre il clima dà il peggio di sè, è come se ritenendoci responsabili del surriscaldamento globale, volesse vomitarci addosso tutta la sua frustrazione.
A Novembre il tempo non è brutto, è triste e c'è una bella differenza tra essere brutto ed essere triste.
Quando prendo l'influenza a Novembre il tempo sembra non passare mai e invece di riprendermi in qualche giorno i tempi di degenza sembrano diventare pari a quelli di chi contrae la schistosomiasi.
Sì ma non è che lo dica soltanto io, Novembre è il soggetto di una delle più orrorifiche poesie che siano mai state scritte nella storia della letteratura:

Novembre

Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al più sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti.

No, non si tratta di Edgar Allan Poe, neanche di Stephen King ma del nostro connazionale Giovanni Pascoli in un momento di riflessione guarda caso nel mese di Novembre. Uau che gioia che ispira questo mese!!

Io sono per l'annichilimento del mese di Novembre, la sua distruzione e definitiva cancellazione dal calendario.

Finalmente una battaglia civile degna di essere combattuta.

martedì 13 novembre 2007

Cattiveria femminile

Ieri sera.
Ieri sera sul treno delle 17:45 si è seduta accanto a me una ragazza.
Una ragazza alla quale è squillato il telefono.
Parlava con tono distaccato, quasi annoiato.

Lei: "Ciao"
Lui: ...
Lei: Sto molto bene grazie.
Lui: ...
Lei: In questo momento sono a casa mia, tranquilla e ben lontana da te.
Lui: ...
Lei: Il tuo problema è che non capisci l'italiano, ho detto NO ed è NO.
Lui: ...
Lei: Senti, sai cosa significa NO? Se ho detto no è NO!
Lui: ...
Lei: Per vari motivi che ben conosci e che non ho più voglia di spiegarti
Lui: ...
Lei: Non mi piace quello che sei, quello che fai, come ti comporti
Lui: ...
Lei: E io non sono il tuo tesoro, neanche tu sei il mio
Lui: ...
Lei: No, no, sei davvero lontano, non hai capito niente, tu non sai nulla di me
Lui: ...
Lei: Mi dispiace la parola perdono per me non ha significato
Lui: ...
Lei: Io sono una che non perdona, non so che cosa significhi perdonare
Lui: ...
Lei: Ti saluto, ciao, se ho voglia ti richiamo io.

Fuori dal finestrino il buio ha definitivamente avvolto la campagna.
Rimesso il cellulare nella borsetta, si è messa un paio di occhiali da sole.
Poi è scoppiata in lacrime.

Assuefazione

La mia droga? Riuscire a sorprenderti. Sempre

sabato 10 novembre 2007

Era ieri




Tanti dei problemi che ho avuto in sessantacinque anni di la­voro li devo alla politica. Tutto è cominciato da quando ero un giovane redattore ordinario, poi inviato e direttore. I posti non li ho mai lasciati, mi hanno sempre cacciato, più o meno edu­catamente, e sempre con grande imbarazzo da parte dell'edi­tore, addirittura con la commozione di alcuni … L'accusa era sempre quella: Biagi è un comunista.
Forse de­luderò qualcuno e qualcuno, invece, sarà felice: non sono mai stato comunista, sono un vecchio socialista che è stato amico di Nenni e che ha creduto per tutta la vita che una società senza giustizia sociale non può essere una società democratica. Non ho sentito il bisogno di mandare neppure due righe di smenti­ta, mi sembrava una vigliaccheria. In fin dei conti, questa accu­sa che cosa voleva dire? Che mangiavo i bambini? Che ero con­tro chi stava al potere? Era una colpa assumere e poi difendere alcuni colleghi che erano iscritti al partito? Io non guardavo in tasca a nessuno, mi interessava la testa di chi lavorava con me. Ed è incredibile che quell'accusa mi abbia accompagnato fino a ottantadue anni quando, ancora una volta, ho pagato per le mie idee. È successo nella primavera del 2002.

Il pomeriggio del 18 aprile, come tutti i giorni, ero nella redazione de II Fatto insieme con i miei collaboratori, quando arrivò quell'agenzia che mi ha cambiato la vita.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, l'imprendito­re che tanto aveva fatto e detto per avermi alla sua corte, dalla Bulgaria, durante una conferenza stampa nel World Trade Center di Sofìa, la «Sapiente», guarda l'ironia della geografia, con il Primo ministro Simeone Sassonia Coburgo Gotha, accu­sò il collega Michele Santoro, il bravissimo comico Daniele Luttazzi e il sottoscritto: «La Rai tornerà a essere una tv pubbli­ca, cioè di tutti, cioè oggettiva, cioè non politica, cioè non partitica e non faziosa come è stata con l'occupazione militare del­la sinistra. L'uso fatto da Biagi, da quel... come si chiama? ah, Santoro, e da Luttazzi della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti è stato un uso criminoso. Preciso dovere di questa nuova dirigenza sia quello di non permettere più che questo avvenga. Ove cambiassero non c'è un problema ad personam, ma siccome non cambieranno...».

I telefoni cominciarono a squillare, tutte le testate cercava­no di avere da me un commento, una replica, il nostro fax e la nostra mail furono intasati di messaggi di solidarietà. Ricordo che avevamo appena registrato la puntata della sera, ma con Loris pensammo di sostituirla con la mia risposta al premier.
In un primo momento non ero d'accordo, non avevo mai utilizzato per me un programma, ma quello che mi convinse fu la seconda parte del discorso di Berlusconi, quella in cui di­ceva «Ove cambiassero...».

Gli risposi: «Da Sofia il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non trova di meglio che segnalare tre biechi indi­vidui, in ordine alfabetico: Biagi, Luttazzi, Santoro. Quale sa­rebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento al­la delinquenza, falso e diffamazione? Denunci. Poi il presiden­te Berlusconi, siccome non prevede nei tre biechi personaggi pentimento e redenzione - pur non avendo niente di persona­le - lascerebbe intendere, se ho capito bene, che dovrebbero togliere il disturbo.
Signor presidente Berlusconi, dia disposi­zioni di procedere perché la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri.
So­no ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spa­zio per la libertà di stampa. E ci sia perfino in questa azienda che, essendo proprio di tutti, come lei dice, vorrà sentire tutte le opinioni. Perché questo, Signor Presidente, è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un'occhiata, nella Costituzio­ne.
In America, ne avrà sentito parlare, Richard Nixon dovette lasciare la Casa Bianca per un'operazione chiamata Watergate, condotta da giovani cronisti alle dipendenze di quel grande e libero editore che era la signora Katherine Graham, proprietaria della Washington Post.
Questa, tra l'altro, viene presentata come televisione di Stato, anche se qualcuno tende a farla di governo, ma è il pubblico che giudica. Nove volte su dieci, con­trollare, II Fatto è la trasmissione più vista della Rai.
Lavoro qui dal 1961 e sono affezionato a questa azienda. Le voglio bene. Ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto, cioè i programmi, e chiede che due giornalisti, Bia­gi e Santoro, entrino nella categoria dei disoccupati. L'idea poi di cacciare il comico Luttazzi è più da impresario, quale lei è del resto, che da statista.
Cari telespettatori, questa potrebbe essere l'ultima puntata de II Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare al prezzo di certi patteggiamenti.

«Signor presidente Berlusconi, non tocca a lei licenziarmi. Penso che qualcuno mi accuserà di un uso personale del mio programma, ma ho voluto raccontare una storia che va al di là della mia trascurabile persona e che coinvolge un problema fondamentale: quello della libertà di espressione».

Era ieri
Enzo Biagi

giovedì 8 novembre 2007

Considero valore



Considero valore ogni forma di vita,
la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finchè dura il pasto,
un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato,
due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente,
e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua,
riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo,
accorrere a un grido,
chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordarsi di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual’è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo,
la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare
e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri de Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi (2002)

Una musica che può fare a meno delle note: io la chiamo poesia.

mercoledì 7 novembre 2007

Le lettere della mia vita (A)


Da "Grande illustrazione del Lombardo-Veneto" a cura di Cesare Cantù e d'altri letterati, Milano, Corona e Caimi Editori, 1858

A fu la luce dell'est, come direbbe Battisti.
Non me ne innamorai, questo no. Però fu una passione grande quanto una nazione intera. Fu l'interesse per tutta una terra, che prima non conoscevo affatto. Lei aveva un carattere davvero difficile, e anche difficilmente conciliabile al mio. Infatti per me era una bella amicizia. Tutto qui. Era ciò che andava oltre la sua persona ad interessarmi; la sua cultura nuova e difficile da capire.

Poi c'era una cosa che accomuna molte lettere della mia vita: la volontà di aiutarla in qualche modo. Quasi che io detenessi qualche strano potere, con un effetto positivo sulle persone che mi si avvicinano. Quasi che io fossi una specie di re Mida, che tutto ciò che tocca diventa oro. Invece, fui solo un cretino; ingenuo, sicuramente senza dolo, forse senza colpa, ma comunque un cretino. Lei soffrì molto, e se non fosse che lei ora è felice, starei ancora male pensando a lei.

Samuel

La nebbia che respiro ormai
si dirada perché davanti a me
un sole quasi bianco sale ad est
La luce si diffonde ed io
questo odore di funghi faccio mio
seguendo il mio ricordo verso est
Piccoli stivali e sopra lei
una corsa in mezzo al fango e ancora lei
poi le sue labbra rosa e infine noi
Scusa se non parlo ancora slavo
mentre lei che non capiva disse bravo
e rotolammo fra sospiri e "da"
Poi seduti accanto in un'osteria
bevendo un brodo caldo che follia
io la sentivo ancora profondamente mia
Ma un ramo calpestato ed ecco che
ritorno col pensiero.
E ascolto te
il passo tuo
il tuo respiro dietro me
A te che sei il mio presente
a te la mia mente
e come uccelli leggeri
fuggon tutti i miei pensieri
per lasciar solo posto al tuo viso
che come un sole rosso acceso
arde per me.
Le foglie ancor bagnate
lascian fredda la mia mano e più in là
un canto di fagiano sale ad est
qualcuno grida il nome mio
smarrirmi in questo bosco volli io
per leggere in silenzio un libro scritto ad est
Le mani rosse un poco ruvide
la mia bocca nell'abbraccio cercano
il seno bianco e morbido tra noi
Dimmi perché ridi amore mio
proprio così buffo sono io
la sua risposta dolce non seppi mai!
L'auto che partiva e dietro lei
ferma sulla strada lontano ormai
lei che rincorreva inutilmente noi
Un colpo di fucile ed ecco che
ritorno col pensiero
e ascolto te
il passo tuo
il tuo respiro dietro me
A te che sei il mio presente
a te la mia mente
e come uccelli leggeri
fuggon tutti i miei pensieri
per lasciar solo posto al tuo viso
che come un sole rosso acceso
arde per me.

La luce dell'est di Lucio Battisti (da Il mio canto libero, Novembre 1972)

martedì 6 novembre 2007

Tutto contorno e niente fumo (rivisto)


Statua di Manuela Arcuri, Porto Cesareo (Lecce), foto di blunight72

Il pezzo di Massimo Gramellini di oggi - non so per quale contorto collegamento - mi ha fa fatto tornare alla mente un terribile momento della scorsa estate: la statua dedicata a Manuela Arcuri. Porto Cesareo è un posto bellissimo. Ancora incantato dalla piacevole brezza della sera e dalle emozionanti passeggiate tra amici, fui tutto d'un tratto colto da un insolito disgusto: Manuela Arcuri scolpita in pietra leccese. Manuela Arcuri. "Simbolo di bellezza e prosperità", diceva la targetta. Manuela Arcuri. Il cui unito merito è la pura e semplice casualità di essere nata "topa".

Ah Massimo, io non mi scandalizzerei tanto per chi non conosce un banalissimo proverbio. Anche se intristisce tanta imbecillità e sfrontatezza, mi preoccupa ancor più la pochezza di certi modelli sociali. La statua a Manuela Arcuri. L'etichetta di attrice a Monica Bellucci. A quando la "velina" candidata a Presidente del Consiglio?

Samuel

Non riesco a togliermi dalla testa il tassista di Lecce intervistato nei giorni scorsi dal Tg3 a proposito della presenza in quella splendida città barocca della non meno splendida e barocca Monica Bellucci. «Si tratta di una delle migliori attrici italiane, però dovrebbe imparare a recitare», esordiva spigliato e senza la minima ambizione ironica il campione della Gente Comune. Poi, evidentemente ancora non sazio, rincarava la dose: «La Bellucci è tutta contorno e niente fumo».

A questo punto vorrei capire dove e quando abbiamo sbagliato. Come sia possibile che un giovane uomo, cresciuto in una nazione che gli ha garantito almeno otto anni di istruzione finanziati dalla collettività, possa mettere il contorno al posto del fumo e il fumo al posto dell’arrosto, non riesca a cogliere l'incongruenza logica fra l’essere una delle migliori attrici (falso) e il non saper recitare (vero), ma soprattutto sia capace di inanellare tali sfondoni dinanzi a una telecamera senza trasudare imbarazzo, neanche una gocciolina. Di quale delle duecento riforme scolastiche susseguitesi nell’ultimo mezzo secolo sarà figlio cotanto cervello? E per quale motivo i nonni del tassista di Lecce, che a differenza del nipote si fermarono probabilmente alla terza elementare, non avrebbero mai pronunciato una castroneria simile? Alla prima domanda, l’unica risposta credibile è: tutte. Alla seconda, che magari i nonni erano quasi ignoranti come lui, ma non se ne vantavano ancora. Avevano troppo rispetto e timore delle parole per pattinarvi sopra con sciagurata disinvoltura.

Massimo Gramellini, La Stampa, 6/11/2007

martedì 30 ottobre 2007

Vergogna


Desperation di Jonah Michael Hodgkins

"Sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,9% della classe di età considerata). 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali (23,7%),
3 milioni 961 mila violenze fisiche (18,8%). Circa 1 milione di donne ha subito stupri o tentati stupri (4,8%). Il 14,3% delle donne con un rapporto di coppia attuale o precedente ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner, se si considerano solo le donne con un expartner la percentuale arriva al 17,3%. Il 24,7% delle donne ha subito violenze da un altro uomo. Mentre la violenza fisica è più di frequente opera dei partner (12% contro 9,8%), l’inverso accade per la violenza sessuale (6,1% contro 20,4%) soprattutto per il peso delle molestie sessuali. La differenza, infatti, è quasi nulla per gli stupri e i tentati stupri.
Negli ultimi 12 mesi il numero delle donne vittime di violenza ammonta a
1 milione e 150 mila (5,4%). Sono le giovani dai 16 ai 24 anni (16,3%) e dai 25 ai 24 anni (7,9%) a presentare i tassi più alti. Il 3,5% delle donne ha subito violenza sessuale, il 2,7% fisica. Lo 0,3%, pari a 74 mila donne, ha subito stupri o tentati stupri. La violenza domestica ha colpito il 2,4% delle donne, quella al di fuori delle mura domestiche il 3,4%. Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%). È consistente la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner e 24% per quelle da nonpartner)."

Fonte: ISTAT "La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia - Anno 2006" 21 febbraio 2007

http://www.istat.it/salastampa/comunicati/
non_calendario/20070221_00/testointegrale.pdf


Una donna ogni tre che ci passa davanti è stata vittima di violenza.
E forse non lo racconterà mai.

Vergogna.

lunedì 29 ottobre 2007

Verità


Volo dell'aquila, di H. Lee Shapiro

"Perché l'importante" mi disse
"è che tu sappia la verità.
Finché non la sai - finché non
la capisci veramente - puoi soltanto
afferrarne qualche stralcio, o brandello,
e non senza un aiuto dall'esterno:
da macchine,
uomini, uccelli.
Ma ricordati," disse
"che l'essere ignota non
impedisce alla verità
d'essere vera"

Nessun luogo è lontano, di Richard Bach

Samuel

venerdì 26 ottobre 2007

Enrico Mattei


Enrico Mattei ad un raduno di partigiani

Enrico Mattei non aveva ancora quarant'anni quando fu nominato liquidatore dell'AGIP: doveva smantellare e vendere tutto ai privati. Era il 1945. Finita la guerra, lo Stato aveva solo perso un sacco di soldi con l'AGIP e con l'illusione fascista di poter ricavare energia dal sottosuolo italiano.

Ma Mattei ebbe un'intuizione geniale: scoprì che sotto terra c'era un sacco di metano, gas. Non soltanto non chiuse l'azienda. Anzi la fece crescere, la fuse con altre, la fece diventare ENI. Al punto di contribuire in modo decisivo ad un vero e proprio boom economico in Italia. Al punto, soprattutto, di pestare i piedi alle sette sorelle: le maggiori compagnie petrolifere americane a livello mondiale. Quelle - per intenderci - che forniscono i motivi reali per le guerre degli ultimi anni in Medio Oriente.

Enrico Mattei infatti voleva costruire oleodotti verso l'Italia e giacimenti petroliferi nel rispetto dello sviluppo paritario anche di quei paesi -- che invece allora come oggi vengono solo sfruttati.

Nel 1962, tornando dalla Sicilia a Milano, Mattei muore in un misterioso incidente aereo. Nessuno sa chi è stato; ma tutti sanno che non si è trattato di un semplice incidente.

Questo è il suo ultimo discorso.

Samuel

giovedì 25 ottobre 2007

Usate l'auricolare

Ci illudiamo di inventare come se producessimo dal nulla, spesso usiamo impropriamente il verbo "creare".
In realtà l'unica cosa che sappiamo fare è scoprire, intercettare in un universo ordinato le leggi che lo disciplinano, leggi nel rispetto delle quali produrre oggetti, macchine o idee.
No, non possiamo fregiarci del titolo di "creatori". Colui che crea qualcosa solitamente ha piena consapevolezza delle dinamiche, dei meccanismi e degli eventuali sviluppi ai quali il creato è soggetto.

Non si può dire certo di noi: le nostre "invenzioni" sono spesso imperfette se non alcune volte tremendamente pericolose. Il problema è che ce accorgiamo troppo tardi, quando ormai il danno è fatto.
Il XX secolo è illuminante a questo proposito: grazie ad un'attenta analisi si conclude che, soprattutto verso la seconda metà del secolo è quasi sempre arrivata prima la tecnologia e poi la scienza. Prima si è gridato all'invenzione, poi si è imparato purtroppo a spese altrui, quali potevano essere le implicazioni, le complicazioni e gli effetti collaterali conseguenti che l’applicazione di quella scoperta comportava.

Invece che motore del sapere al servizio del benessere dell'umanità, la scienza sembra avere ultimamente il compito di andare a limitare i danni di "invenzioni" di cui si era andati fieri e orgogliosi per i suoi effetti utilitari prima di conoscerne a fondo i rischi connessi.
La tecnologia ha il sostegno dell'economia, la scienza purtroppo non può vantare gli stessi sponsor.

Qualche voce fuori dal coro c'è. Ricercatori indipendenti invocano spesso il “principio precauzionale", un’idea per l’applicazione delle scoperte che si fonda su una premessa logica e per alcuni fastidiosamente limitante: il fatto che non si abbiano notizie certe riguardo alla pericolosità di una certa "invenzione" non significa che non ve ne siano. Probabilmente significa semplicemente che siamo ancora troppo ignoranti. Occorrerebbe avere delle certezze prima di sfruttare una scoperta su scala commerciale.

Significativo è il caso riguardante telefonia cellulare, televisione e radio (la possibilità di comunicare facendo uso di onde elettromagnetiche), considerati oggi successi tecnologici acquisiti e confermati.
Forse però qualcuno troverà interessante essere informato del fatto che gli studi che hanno stabilito quali devono essere i limiti di esposizione umana ai campi elettromagnetici prendono in considerazione soltanto gli effetti termici dei campi sul corpo umano.
Per la precisione, l'effetto termico è quello grazie al quale le microonde scaldano i cibi.
Il piccolo dettaglio che finora è stato trascurato è che questi campi hanno effetti non-termici i quali dovrebbero essere tenuti in conto per stabilire quali sono i limiti minimi per garantire la salute delle persone.

Sta di fatto che cellulari, antenne e ripetitori sono stati sparsi come fossero coriandoli. Spots pubblicitari simpatici e accattivanti presentano uomini, donne e anche bambini con il telefonino appiccicato all’orecchio che ostentano noncuranza per il tempo che passa in quanto le tariffe sono convenienti.
Un avanzamento verso la modernità, un'opportunità in più per comunicare "senza limiti".
O forse un nuovo problema.
Non è vero che non creiamo niente.

P.S. Usate l’auricolare tutte le volte che vi è possibile.

www.bioinitiative.org

mercoledì 24 ottobre 2007

Paura

Perché una cosa, anche quando l'hai desiderata tanto, ti fa paura nel momento in cui si sta realizzando? Questo non succede solo alle donne?

Samuel

martedì 23 ottobre 2007

Le autostrade del bit


Relativity, di Maurits Cornelis Escher, 1953

In rete non si parla d'altro: il DDL approvato il 12 ottobre in materia di editoria online. Secondo alcuni il disegno di legge obbligherebbe tutti quelli che hanno anche solo un personalissimo e inutile blog (come il nostro), in cui si parla della vicina antipatica o di quando si potevano tenere aperte le porte di casa, ad iscriversi in un registro nazionale simile a quello della carta stampata, con notevole dispendio di tempo e soldi. Senza parlare dei problemi connessi all'eventuale controllo dei poteri forti sulle libere espressioni. Secondo altri, invece, si tratterebbe di un procedimento gratuito e che quasi sicuramente non coinvolgerebbe neppure i blog.

Non voglio entrare nella polemica, anche perché non sarei in grado di sostenerla. Posso tuttavia segnalare alcuni pareri tanto contrastanti quanto condivisibili (?!):
Il mitico ma manicheo Grillo per cui tutto è bianco, oppure nero.
La provocatoria ma discutibile Gabriella di Macchianera.
Il più serio e pacato di tutti, a dispetto del suo cognome: Attivissimo.
Infine, l'opinione umile e chiara di Guido Scorza.

Al di là della polemica comunque, ci sono due elementi che appaiano chiari in questa vicenda.

Primo. La crisi dell'editoria tradizionale è profonda: sempre più persone (soprattutto giovani) si informano attraverso Internet (blog e contro-informazione) e comunque non comprando gli storici quotidiani nazionali. Anche perché la qualità dei quotidiani italiani lascia sempre più a desiderare: quasi tutti schierati da qualche parte nel teatrino della politica italiana, al posto di dare le notizie, le fanno.

Secondo. L'incompetenza e il divario generazionale fra chi governa e chi è governato è sconcertante. Persone che non hanno mai nemmeno acceso un computer, scrivono (spesso con dei beceri copia-incolla) leggi che cercano di regolamentarne aspetti rilevanti. Sarà che hanno paura? Paura di perdere il potere? Paura dei blogger come Grillo che raccolgono più consensi nelle autostrade del bit, che in una manifestazione di piazza?

Samuel

lunedì 22 ottobre 2007

Donne


The sleepwalking Lady Macbeth di Johann Heinrich Füssli

Uno dei pezzi più belli che abbia mai letto sulle donne.

Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.
Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.
Che uno dice: è finita.
No, non è mai finita per una donna.
Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.
Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti fa la morte o la malattia.
Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.
Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.
Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.
E sei tu che lo fai durare.
Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.
Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.
Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.
Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.
Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".
E il cielo si abbassa di un altro palmo.
Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima ed è passato tanto tempo, e ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.
Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.
Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.
Ed è stata crisi, e hai pianto.
Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.
Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.
Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.
E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance?
E poi hai scavato, hai parlato, quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole.
Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.
"Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.
E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle inestricabile.
Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?
E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.
Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà
sempre avanti.
Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.
Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.
Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.
E' un'avventura, ricostruire se stesse. La più grande.
Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.
Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.
Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto, stiamo lavorando anche per voi.
Ma soprattutto per noi stesse".
Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa.
È la primavera a novembre.
Quando meno te l'aspetti...

Di un anonimo, andato in onda nella trasmissione radiofonica Jack Folla di Diego Cugia.

PS: aspettiamo tutti con grande trepidanza un post di Alberto!

venerdì 19 ottobre 2007

Stia tranquillo, lei sta per uccidere un uomo


Scuola di La Higuera dove Che Guevara fu ucciso alle 13:10 del 9 ottobre 1967

Quel giorno Ernesto Rafael Guevara De la Serna, più conosciuto come Che Guevara, di fronte al suo assassino esitante, pare che abbia detto:

Lei è venuto a uccidermi. Stia tranquillo, lei sta per uccidere un uomo

(fonte: Paco Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza)

Quarant'anni dopo, un giornale italiano titola così: I 40 anni della morte di Che Guevara. Le celebrazioni di un assassino. (vedi prima pagina).

Samuel

giovedì 18 ottobre 2007

La meno narcisistica delle espressioni


Saul Steinberg, Ragazzina che parla con il padre

«Il disegno come esperienza e occupazione letteraria mi libera dal bisogno di parlare e di scrivere. Lo scrivere è un mestiere talmente orribile, talmente difficile... Anche la pittura e la scultura sono altrettanto difficili e complicate e per me sarebbero una perdita di tempo. C'è nella pittura e nella scultura un compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere che evita la vera essenza delle cose, l'idea pura; mentre il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni.» - Saul Steinberg, intervista di Sergio Zavoli, 1967

Saul Steinberg è stato uno dei più importanti disegnatori del secolo scorso. Rumeno, nato da una famiglia ebraica, egli affronta i temi più profondi dell'infanzia e del vivere umano attraverso un disegno carico di simbolismo.

In questo disegno, per esempio, illustra una bambina mentre parla con il padre. La linea immaginaria che traccia il “parlare” della piccola – rappresentata con il tipico modo di scrivere dei bambini fatto di forme rotondeggianti – simboleggia la sua immaginazione e fantasia. Immaginazione che viene bruscamente azzittita e repressa dalla perentoria linea spessa del parlare del padre – che rappresenta una voce grossa e rauca (la linea ha i contorni mal definiti); squadrata e spigolosa, ad indicare pure la praticità e razionalità di un adulto. La forma triangolare e l'uncino finale alla base denota una risposta negativa e priva di sentimento alle domande gioiose ed entusiastiche della piccola.

Samuel

mercoledì 17 ottobre 2007

Buongiorno #2

Buongiorno a chi ha la certezza di un futuro luminoso accanto alla donna della sua vita e ogni tanto si chiede se forse non sarebbe il caso di sapere cosa pensa lei al riguardo.

Buongiorno a chi crede che un ragazzo e una ragazza possano essere semplicemente amici. Adamo ed Eva passavano ore a parlare, guarda te quanti bambini sono nati.

Buongiorno a chi pensa di avere di delle idee perchè passa il suo tempo a leggere quelle degli altri sui libri.

Buongiorno a quelli che come al solito hanno frainteso. Maliziosi che non siete altro, il fatto che si rivolgesse a voi con l'epiteto "pulciccio" non significava proprio niente.

Buongiorno a chi si chiede perchè tutte le volte che espongono la Sindone c'è un lenzuolo davanti e non si vede nulla.

Buongiorno alla nonnina che a giorni alterni sbaglia a comporre il numero di telefono e mi chiama piena di entusiasmo dicendo: "Ciao Mariagrazia!"

Semplici coincidenze


Magnolia, di Paul Thomas Anderson (scena d'apertura, inglese)


Sir Edmund William Godfrey
, un cittadino di Greenberry Hill, Londra, viene assassinato fuori dalla propria farmacia da tre vagabondi. I tre vagabondi sono Joseph Green, Stanley Berry e Daniel Hill: Greenberry Hill.
L'opinione di questo umile narratore, si dice nel film, è che in casi come questo non si possa parlare di caso.

L'umile narratore del film racconta in apertura leggende metropolitane di scarsa credibilità. Quella appena descritta, ad esempio, prende spunto da un fatto realmente accaduto, ma ancora irrisolto. Tuttavia, la domanda rimane: sicuri che si tratti di semplici coincidenze? È un caso sentire qualcuno che ti parla di lei, senza nemmeno conoscerla? Incontrarla fra un milione di abitanti in una grande città, proprio quando il tuo pensiero corre verso lei?

L'umile opinione di questo narratore è che non si tratti di semplici coincidenze.

Samuel

martedì 16 ottobre 2007

Walter


Walter Veltroni con Pier Paolo Pasolini, foto amatoriale

Domenica scorsa c'è stato il W-day, il giorno di Walter, in quella che mi è apparsa come una gigantesca farsa della politica. Come se la sua leadership nel Partito Democratico non fosse già decisa, o comunque scontata. Del resto, quali alternative hanno? In mezzo ad una manica di vecchi (non solo anagraficamente) e smidollati leader, un cinquantaduenne con il carisma di Topo Gigio appare proprio l'unica possibilità a sinistra. Dove sono finiti i Berlinguer? Dove, i carismatici leader, di destra o di sinistra, capaci di rappresentare e guidare i popoli? Lo scollamento fra la gente e la politica è un dato di fatto; una tendenza senza ritorno. Ha ragione Bertinotti: c'è un vuoto di politica. Bravo! Ma chi l'ha creato? Non è forse la politica stessa?

Ecco la mia tesi (che poi non è la mia):

La politica non può aiutare la gente

Dimostrazione:
La politica la fa una persona o più persone per conto della gente tutta, o di una parte d'essa. Nel caso della democrazia, ad esempio, si assume che le persone che fanno politica rappresentino la gente, i loro interessi.
Procediamo per assurdo: se riusciamo a dimostrare che questo valga in un microcosmo formato da una sola persona (diremmo con un po' di fantasia, monocrazia), possiamo tentare di dimostrare – per induzione – che valga anche per n, e poi n+1, persone; insomma per tutti.
Tuttavia, una singola persona non è capace di capire da sola nemmeno sé stessa (io per primo). Dunque, non è in grado di fare scelte in cui ci sia la ragionevole certezza di successo. Allora, per il ragionamento di cui sopra, l'ipotesi opposta alla tesi di partenza è assurda persino per n = 1; è perciò sicuramente falsa anche in generale.

CVD

Samuel

lunedì 15 ottobre 2007

Un peu plus de feu


Un peu plus de lumière, dei Groupe F, foto di Jean-François Abbate

Un'emozione calda e luminosa. Il cielo coperto e buio della notte era a tratti illuminato a giorno. La pelle del viso calda, come vicino ad un falò sulla spiaggia con gli amici. La polvere dei fuochi d'artificio scendeva dall'alto sugli astanti, mentre la musica incalzava. La musica si adattava al fuoco e, anzi, dal fuoco stesso traeva ispirazione. Personaggi coperti di fuoco e luce si muovevano su di un palco immaginario, come lontanissimi marziani.

Samuel

venerdì 12 ottobre 2007

In Rainbows


Il sito web del nuovo album dei Radiohead, In rainbows

È forse iniziata una nuova era nella distribuzione della musica? Si può dire, forse, che l'impero discografico che decide cosa e chi ascoltare sia in declino? Possiamo sperare che il successo - anche commerciale - di un artista cominci ad essere legato più alle sue capacità che alla sua immagine? Che su MTV si vedano meno culi e si ascolti più musica?

Non credo.

Oggi comunque ho scaricato legalmente questo ultimo lavoro dei Radiohead: In Rainbows. Si può scegliere il prezzo da pagare ed essere sicuri che questi soldi andranno direttamente agli artisti. Rivoluzionario? Forse. Rimane un ottimo lavoro di una delle poche band che ha aggiunto qualcosa al rock degli ultimi anni. Un lavoro, fra l'altro, fruibile a pochi euro.

http://www.inrainbows.com/

Samuel

giovedì 11 ottobre 2007

Garbieli Editore



Affetto materno, di William-Adolphe Bouguereau (1869)

Ho ritrovato, per caso, un vecchio libro ingiallito dal tempo: si tratta delle poesie che mia madre aveva fatto pubblicare nel 1978, a un anno dalla mia nascita.

L'Amore è desiderio,
ma io ti amo perché
la via più breve
dell'Amore Infinito
è quella della
rinuncia al tuo
amore finito.

L'amore è ... di Lucia


Samuel

Buongiorno #1

Buongiorno a chi questa mattina si è ritrovato a contemplare una donna straordinaria adagiata al suo fianco. E poi si è svegliato.

Buongiorno a te che pensi di non capire niente di politica e invece è la politica che non capisce te e il tuo non capire cose incomprensibili a chi non comprende, te compreso.
E non dire che non hai capito.

Buongiorno a te che ti chiedi spesso perchè il tuo vicino di casa, invece di sopprimersi autonomamente, istiga te all'omicidio preterintenzionale, con tutte i fastidi legali che ne conseguono.

Buongiorno a chi è indeciso se innamorarsi di nuovo o procurarsi un trauma cranico volontariamente sbattendo la testa contro lo spigolo acuminato di un tavolo di marmo.
Per farsi del male da soli non è necessario scomodare i sentimenti.

Buongiorno a chi in ascensore con uno sconosciuto fissa la parete o il pavimento come se ci fosse qualcosa da vedere. Sarebbe meno idiota leggere con vivo interesse l'etichetta con la portata massima e il numero di telefono per le emergenze, no?

Buongiorno, infine, a chi ha visto la trilogia di Matrix e, mentendo miserabilmente, sostiene di aver capito tutto.

mercoledì 10 ottobre 2007

Il cacciatore di aquiloni


Il cacciatore di aquiloni (film), di Marc Forster

«Sono diventato la persona che sono oggi all'età di dodici anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. È stato tanto tempo fa. Ma non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto.» - Incipit de Il cacciatore di aquiloni


Per chi di voi ha già letto questo romanzo, ci sono buone notizie! Personalmente amo di più i grandi “classici” della letteratura; tuttavia questo romanzo secondo me è una delle migliori opere contemporanee. Scritto in prima persona, da un narratore onnisciente (cioè sa tutto di tutti in qualsiasi momento), è la storia di un ragazzo che cresce in trent’anni di storia afgana. Lo stile è facile e scorrevole. Il coinvolgimento emotivo, totale.

La buona notizia è che uno dei più apprezzati registi contemporanei, Marc Forster (l’autore di Nerverland, tanto per intenderci), ci ha fatto un film, girato in persiano (!!) e con la sceneggiatura dello stesso Hosseini (lo scrittore). L’uscita, prevista a novembre, è stata spostata al 14 dicembre (11 gennaio qui in Italia), a causa di alcune preoccupazioni per l’incolumità dei giovani protagonisti di Kabul, che in questo modo avranno il tempo di trasferirsi negli States.

Samuel

Vancouver, Beautiful British Columbia

Il cielo arancione fa da sfondo a montagne affacciate su una baia che sembrano voler abbracciare.
Un cane nero corre libero sul bagnasciuga di una spiaggia senza ombrelloni nè bagnanti.
I grattacieli impettiti e solenni nelle cui terse vetrate si specchia un cielo che va scurendosi.


Istantanee di un paesaggio che si mostra senza veli in una sera d'estate.
Manca l'elemento umano, la traduzione in sentire del semplice vedere.


Anzi no, c'è.
Dalla terrazza di un hotel gli occhi neri di una giovane donna seguono attenti l'elegante virata di un idrovolante che va a posarsi con leggerezza sul pelo dell'acqua.
Avvolta in un vestito da sera, le spalle coperte da un sobrio scialle nero, sorregge tra le braccia la sua bimba addormentata.

Una cartolina da Vancouver, Beautiful British Columbia

giovedì 20 settembre 2007

Opinioni


Gandhi, Spot Telecom, 2004

Mohandas Karamchand Gandhi: "If you want to give a message it must be a message of Love, it must be a message of Truth. I want to capture your hearts. Let your hearts clap in unison with what I'm saying. A friend asked yesterday, did I believe in one world? How can I possibly do otherwise, of course I believe in one world".

Mohandas Karamchand Gandhi: "Se volete dare un messaggio, deve essere un messaggio di Amore, deve essere un messaggio di Verità. Voglio conquistare i vostri cuori. Fate battere i vostri cuori all'unisono con quello che dico. Ieri un amico mi ha domandato se credessi davvero in un mondo unito. Come potrei fare altrimenti? Certo che credo in un mondo unito".

Winston Churchill: "un fachiro seminudo che osa salire le scale del palazzo di Sua Maestà", "un uomo disgustoso, che dev'essere lasciato morire di fame in prigione".

Albert Einstein: "Le generazioni a venire, forse, crederanno a fatica che un individuo come questo, in carne ed ossa, camminò su questa terra."

mercoledì 12 settembre 2007

Quattro anni


Quattro anni.
Sono quattro anni che passo praticamente tutte le serate del fine settimana in Città.
Da casa mia 30 kilometri all'andata, 30 al ritorno. 60 kilometri ogni sera per raggiungere persone che ritengo li valgano tutti.


La strada la conosco a memoria, l'ho percorsa centinaia e centinaia di volte e in ognuna di esse le condizioni erano diverse. Mi vengono in mente pioggia, neve e gelo d'inverno, la nebbia spesso, il sole torrido di luglio, il fresco venticello delle serate di primavera.
Entro in macchina, è l'andata, sempre piena di aspettative, dopo una settimana di scadenze da rispettare e impegni da sbrigare.
E poi il ritorno, sì, quello durante il quale il tempo sembra rallentare e casa sembra non arrivare mai. Strizzo gli occhi mentre incrocio i fari delle altre macchine, tento di rimanere sveglio nonostante la stanchezza e il sonno, ascolto "Enjoy the silence" ripensando a ciò che ho detto soprattutto a ciò che non ho detto, alle nuove persone che ho appena conosciuto, a quelle che già conosco e che valuto e rivaluto continuamente attraverso i loro atteggiamenti e scelte.


Si sa, guidare su una strada che è sempre la stessa diventa un semplice esercizio mnemonico, la mente non segue l'asfalto ma segue altri percorsi, più impervi, meno trafficati.
A volte si rende conto di aver viaggiato senza essere giunta a nulla. Pazienza.

Arrivo a casa, mi chiedo inutilmente perchè faccio sempre così tardi e punto la sveglia per il mattino dopo.
Spengo la luce, un altro viaggio sta per iniziare.


lunedì 3 settembre 2007

072007@MK


La Macedonia e le sue tre anime, foto Samuel, Luglio 2007

Nedžat è un ragazzo piuomeno della mia età. Vive con la madre e la sorella. E ha ospitato me per qualche settimana.


Mi alzo la mattina abbastanza presto, esco dalla stanza, scendo le scale e fuori di casa vado verso il bagno; lì vicino c'è una vecchia stufa dove comincio a mettere legna: anzi, prima la carta e i pezzi di legno più piccoli, poi quelli un po' più grossi. Con un accendino mezzo rotto appiccio il fuoco.
Il fuoco brucia,
sprigionando acre odore di vero.
Non ho finito. Riempo un pentolone di acqua fredda e lo piazzo sulla stufa. Dopo una mezzoretta potrò usare quell'acqua che diventerà calda per lavarmi. Farsi la doccia qui è un rito. Nulla di complicato, certo, ma un procedimento lungo e ripetitivo, questo sì.

La famiglia che ospita me e alcuni altri miei amici è rom. Ci sono fra i 50 e i 250 mila rom in Macedonia (fonte); oltre ai rom e ai macedoni, poi, ci sono gli albanesi: circa 500 mila (fonte). Si può capire dunque, quanto sia frammentata la popolazione macedone, che in totale si aggira sui 2 milioni di persone (fonte). Le tre anime della Macedonia – rom, albanesi e macedoni, appunto – sono diversissime su tutto: religione storia cultura ecc.; quell'equilibrio assai fragile e un po' forzato che esisteva ai tempi del dittatore comunista Tito, è andato svanendo. Attualmente la Repubblica di Macedonia è proprio come il resto dei Balcani: una pericolosa polveriera. Odio diffidenza e pregiudizi sono elementi ordinari fra le diverse etnie, che ormai si limitano a sopravvivere in un'esistenza in cui prevale la peggiore delle tolleranze: la totale chiusura verso chi è diverso.

Ad esempio, i macedoni sono cristiani ortodossi, mentre gli albanesi musulmani. Molti albanesi hanno muri di cemento attorno alle loro case, per “proteggere” le loro donne. Ai tempi del regime di Tito, le autorità andavano con le ruspe a demolire questi muri e, anche quando i padroni di casa si piazzavano caparbiamente seduti davanti al proprio muro, si usavano i cani per farli alzare. Ora questa violenza culturale e religiosa è acqua del passato. Tuttavia i “muri” che separano gli albanesi dai macedoni sono ancora più spessi. Ci sono villaggi in cui vivono solo albanesi; villaggi in cui vivono solo macedoni. E anche nelle città a popolazione mista, i quartieri sono quasi sempre ben separati.

Insieme al mio nuovo amico rom, discuto con una famiglia albanese musulmana di quanto la religione sia stata incapace di guidare l'umanità, la politica. Leggiamo alcuni passaggi da una sura del Corano e mentre faccio notare un passaggio biblico, gli occhi del padre di quella famiglia brillano...

di una luce di consapevolezza mista a speranza.
Forse un altro mondo è possibile.

Samuel

martedì 31 luglio 2007

Perle

Il maxi-processo voluto dai giudici del pool antimafia tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino inizia a Palermo il 10 febbraio del 1986.

Quattrocentosettantaquattro imputati.
Alcuni di essi si comportano in maniera distruttiva e abbastanza pericolosa: uno si chiude la bocca con delle graffette per segnalare il suo rifiuto di parlare, un altro mostra segni di pazzia, urlando di continuo e ingaggiando lotte con le guardie anche quando indossa la camicia di forza, un altro ancora minaccia di tagliarsi la gola se una sua dichiarazione non viene letta alla corte (vedi fonte).

Ci sono nomi del calibro di Luciano Liggio (che si presenta in aula con un grosso sigaro cubano come i boss dei film americani), Pippo Calò (detto «il cassiere della mafia») e Michele Greco detto «il Papa» (con un abito azzurro e un Rolex d'oro al polso).

Tra di loro si distingue la figura di Michele Greco, non soltanto perl'importanza della sua figura ma soprattutto per il contenuto ideologico della sua difesa.
Grazie ai prossimi tre video saremo in grado di apprezzare:

Parte della sua strategia difensiva




Una rivoluzionaria teoria sulla rovina dell'umanità




Ed infine i sentiti auguri alla Corte




Alla fine del processo fu ritenuto colpevole di 4 omicidi (tra cui quello del giudice Chinnici fatto saltare in aria insieme alla sua scorta) e condannato all'ergastolo.

Grazie lo stesso.

venerdì 6 luglio 2007

It Must Have Been Love

Non poteva andare diversamente. È la degna fine di un rapporto logorante.
Ma forse te lo aspettavi da una persona del genere, in realtà hai sempre saputo che sarebbe andata così.
E' vero, ce l'hai messa tutta per convincerti del contrario, che in fin dei conti le differenze sono apprezzabili, che le distanze si colmano con la stima e che gli infantili orgogli si vincono con quella fiducia che si coltiva di giorno in giorno. Non sono semplici desideri, si chiamano conquiste, sinonimo di battaglie vinte.
Eh sì, bravo, bei pensieri, buoni propositi davvero.
Peccato che erano soltanto i tuoi.
Dall'altra parte solo sogni, idealizzazioni al posto delle idee, pretese invece che proposte.
E ora ti senti come se ti avessero sottratto qualcosa; ripensando al tempo e alle energie che hai speso per tenere a galla tutto questo ti sembra di aver regalato la parte più profonda di te a chi non è stato in grado di apprezzare.
E' dura rendersi conto di aver dato cose importanti a chi non aveva altra intenzione che ricevere.
Che dire... "It must have been love".



Roxette, It Must Have Been Love

Ma cosa riempiva Barkilphedro? Una fornace.
Una fornace murata d'odio, di collera, di silenzio, di rancore, in attesa del suo combustibile, Josiane. Mai un uomo aveva provato tanto orrore per una donna, e senza motivo. Che cosa terribile! Lei era la sua insonnia, la sua preoccupazione, il suo tormento, la sua rabbia.
Forse ne era un po' innamorato.
L'uomo che ride, Victor Hugo

venerdì 15 giugno 2007

La terra dei vespri e degli aranci



Peppino insieme al fratello Giovanni

La Sicilia. Cinisi. È notizia di questi giorni che la “Casa della Memoria” di Peppino Impastato sia stata oggetto di intimidazioni in due occasioni: prima l'11 e poi il 12 giugno. Due, quasi a voler sottolineare che non si tratta di una semplice “bravata”: gli autori hanno cosparso di acido la facciata della casa. Acido, acido corrosivo.

Peppino Impastato fu un giovane attivista politico, morto ammazzato a trent'anni, membro di una famiglia mafiosa, dalla quale si separò e che in seguito combatté. Una lotta difficile e dolorosa, anzi letale, contro la mafia; non certo contro la famiglia, che pure poi prese le distanze dal clan. La sua storia è diventata una pellicola cinematografica bellissima: I cento passi, di Marco Tullio Giordana. Peppino, fra l'altro, diede vita ad una radio (Radio Aut) di cui ancora oggi si possono ascoltare alcune registrazioni originali: monologhi folli dissacranti e soprattutto apertamente invisi alla mafia locale, come la “Cretina commedia”.

Una storia, questa, che forse molti, come quelli che hanno compiuto i vandalismi nella casa che fu di Peppino, vorrebbero cancellare. Corrodere, come sotto l'azione di un potente acido. Eppure, mi dico, c'è il rimedio all'acido corrosivo dell'imbecillità, del revisionismo per qualche tornaconto politico o – più semplicemente – dello scorrere del tempo: si chiama cinema, come nel film di Giordana, o forse musica, come nella canzone dei Modena City Ramblers. Insomma, si chiama poesia.

«Appartiene al tuo sorriso
l'ansia dell'uomo che muore,
al suo sguardo confuso
chiede un po' d'attenzione,
alle sue labbra di rosso corallo
un ingenuo abbandono,
vuol sentire sul petto
il suo respiro affannoso:
è un uomo che muore.»
Poesie, di Peppino Impastato

venerdì 1 giugno 2007

Distanze


Far Away di Tobias Zeising

Distanze,
risultato di sottintesi,
di parole non dette,
di sentimenti celati
di atteggiamenti fraintesi.

Distanze,
quelle che separano,
quelle che trafiggono l'anima,
che tengono compagnia
quando gli occhi si allagano.

Distanze,
da colmare,
da riempire,
da morire.

Distanze,
lunghezze che non si riducono mettendosi a viaggiare,
dimensioni che decrescono solo per chi sa sperare.


La lontananza sai è come il cielo
distanza così grande che non serve l'aereoplano
ma questa leggerissima farfalla sulla mano
fa rivivere il pensiero
delicato messaggero
La lontananza sai è come il mare
distanza che è impossibile da dire
inutile varcare
si immagina
e ti impone di aspettare

Il Nodo, Raf

martedì 22 maggio 2007

Crimen Sollicitationis


BBC, Sex crimes and the Vatican (articolo)


Il documentario inglese, trasmesso da BBC il 1° ottobre 2006, sbarcherà (forse) nella TV nazionale ad "Anno zero": al momento in cui scrivo Michele Santoro ha deciso che il documentario non andrà in onda questo giovedì, per verificarne alcuni passaggi (fonte).

Il documentario, comunque, è stato tradotto - sia pure grossolanamente - dai nostri omonimi di Bispensiero.it (gli amici siciliani di Beppe Grillo). È interessante notare, fra l'altro, come la TV ceda il passo ai nuovi mezzi di informazione: il film infatti è già stato visto da più di 500.000 italiani!

Esso affronta il tema assai scabroso degli abusi sessuali da parte dei preti cattolici. Soprattutto, di come la Chiesa in quanto Istituzione non faccia niente per tutelare le vittime; ma, al contrario, si preoccupi soltanto di mantenere il proprio potere e la propria immagine. Ne sarebbe prova questo documento segreto - Crimen Sollicitationis - ad opera di Joseph Ratzinger (sì, propio lui, l'attuale Papa) e che da vent'anni vieta, pena la scomunica, di denunciare qualsiasi violenza.

Buona visione!

Aggiornamento (25/5/2007): Ho modificato il link al video, perché il precedente sembra che non "funzionasse" più...

lunedì 21 maggio 2007

Ἀνάγκη (Fatalità)


Museo d'Orsay, Orologio della vecchia stazione dall'interno, Parigi

Il y a quelques années qu'en visitant, ou, pour mieux dire, en furetant
Notre-Dame, l'auteur de ce livre trouva, dans un recoin obscur de l'une
des tours ce mot, gravé à la main sur le mur:

Ἀνάγκη

Ces majuscules grecques, noires de vétusté et assez profondément
entaillées dans la pierre, je ne sais quels signes propres à la
calligraphie gothique empreints dans leurs formes et dans leurs
attitudes, comme pour révéler que c'était une main du moyen âge qui les
avait écrites là, surtout le sens lugubre et fatal qu'elles renferment,
frappèrent vivement l'auteur.

Victor Hugo - Notre Dame de Paris

La misura del tempo ha sempre avuto un posto di rilievo nelle attività umane.
All'uomo non interessa soltanto il come e il perchè delle cose, spesso l'informazione più importante riguarda il quando.
Tutti gli orologi hanno in comune una caratteristica forse ovvia ma che poi così ovvia non è: misurano un tempo che scorre costante, il cui incedere è contrassegnato da secondi, minuti e ore che si ripetono a intervalli sempre uguali tra loro.
In realtà esistono delle eccezioni.

Esistono infatti diverse concezioni di "tempo".
Per esempio, per misurare tempi che non seguono ritmi costanti, occorrono orologi adeguati, atipici.
Uno di essi è il Doomsday Clock, l'Orologio del Giorno del Giudizio, l'Orologio dell'Apocalisse.
La mezzanotte di questo quadrante indica la fine dell'umanità dovuta a una guerra nucleare o come più recentemente specificato, al disastro ambientale.
Gli Scienziati del Bulletin of the Atomic Scientist dell'Università di Chicago, in piena Guerra Fredda, decisero di fare iniziare il ticchettio di questo orologio non dalla mattina, neanche dal pomeriggio, bensi dalla notte fonda, quasi dalla fine, per la precisione da circa sette minuti prima della mezzanotte.
Era il 1947.
Da allora in poi le lancette si sono spostate molto poco sul quadrante e almeno in quattro occasioni si sono pericolosamente avvicinate alle
12:00 p.m..
Certo, si sono anche allontanate come quando nel 1991 sono state portate a diciassette minuti dalla mezzanotte in seguito alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
Solo per riavvicinarsi nuovamente all'ora del Giudizio.
Per intenderci, oggi sono le 11:55 p.m..
Abbiamo cinque minuti.
Certo, possiamo anche sperare che come nella migliore delle tradizioni l'orologio sia un po' "avanti" o che la situazione mondiale migliorerà riportando le lancette "indietro", il più lontano possibile dalla mezzanotte.
Sarà un po' inquietante ma ricordiamoci che un orologio può anche essere un po' "indietro" e segnare un'ora che è già passata, forse i minuti che mancano non sono cinque, forse sono meno.

Nel 1995 dalla Norvegia viene lanciato un satellite meteorologico.
Nel 1995 esce nelle sale cinematografiche Babe Maialino coraggioso, e allora?
Il satellite meteorologico che scorrazza allegramente nei cieli viene interpretato dalla Difesa russa come un attacco nucleare preventivo americano, un missile partito da un sottomarino che potrebbe sganciare otto bombe nucleari su Mosca nel giro di un quarto d'ora.
A questo punto il presidente russo Boris Eltsin attiva la famosa "valigetta" da cui è possibile ordinare il controattacco nucleare. Dopo circa otto minuti l'allarme rientra e il pericolo di una guerra atomica scoppiata per errore è così sventato.

Anche se non è stato registrato dagli scienziati di Chicago, quel giorno il Doomsday Clock arrivò a qualche secondo dalla mezzanotte.
Prendiamone atto, l'Orologio dell'Apocalisse non è precisissimo ma assolve una funzione filantropica: continua a strillare che non si può incolpare la fatalità per quei disastri che sono in realtà conseguenza delle scelte (auto)distruttive di uomini facenti parte di un sistema all'interno del quale il Potere è valore fondante.

5 ottobre 1960 Base Volk Field, Wisconsin
Una disfunzione di un sistema d’allarme radar avanzato causò un falso allarme nel quartier generale del comando di difesa aerospaziale del Nord America (North Aerospace Defense Command "NORAD") segnalando un "massivo" attacco di missili balistici sovietici vicino gli Stati Uniti. Un errore nel sistema del computer aveva rimosso due zeri dal raggio di controllo delle apparecchiature radar, provocando al radar la percezione di quello che riteneva fosse un possibile attacco missilistico a 2.500 miglia. Il radar in realtà stava percependo una riflessione della luna, situata lontano a 250.000 miglia.
(Fonte: Shaun Gregory, The Hidden Cost of Deterrente: Nuclear Weapons Accidents, Brassey’s UK, London, 1990, p.156)

25 ottobre 1962 Base Volk Field, Wisconsin
Un campanello d’allarme indicante l’inizio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica aveva cominciato a suonare accidentalmente durante l’apice della crisi dei missili cubani. I piloti corsero ai loro aerei dotati di armi nucleari ed erano pronti a partire quando l’errore fu individuato da un ufficiale nel posto di comando. Ai piloti fu ordinato di ritornare.
(Fonte: Scott D. Sagan, The Limits of Safety: Organizations, Accidents, and Nuclear Weapons, Princeton University Press, New Jersey, 1993, p.3)

3 e 6 giugno 1980, località sconosciuta
Un allarme che indicava un massivo attacco missilistico sovietico fu registrato da un computer per le comunicazioni connesso al NORAD. Fu radunato una consultazione per la valutazione della minaccia, e 100 B-52 armati nuclearmente furono messi in allerta per decollo imminente. Anche se l’errore fu individuato, lo stesso computer produsse un identico allarme tre giorni dopo il 6 giugno 1980. Fu nuovamente radunata una consultazione per valutare la minaccia e 100 B-52 armati nuclearmente furono messi in allerta per il decollo. Il problema fu successivamente riconosciuto come il fallimento di un circuito integrato in un computer, il quale stava producendo a caso cifre che rappresentavano il numero dei missili individuati.
(Fonte: Shaun Gregory, The Hidden Cost of Deterrente: Nuclear Weapons Accidents, Brassey’s UK, London, 1990, p.178)

26 settembre 1983
Verso mezzanotte un satellite diede l'allarme a Mosca che 5 missili intercontinentali americani stavano aggredendo l'Unione Sovietica. Il satellite aveva erroneamente identificato i raggi del sole con il movimento di un missile intercontinentale. Il responsabile, maggiore Petrow, che doveva inoltrare l'allarme di attacco ai suoi superiori, i quali avrebbero avuto pochissimi minuti di tempo per lanciare il contrattacco,aveva deciso di ignorare l'allarme per il semplice motivo che non poteva immaginare un attacco americano con solo 5 razzi dove se ne aspettava uno con almeno 500 missili nucleari.

10 gennaio 1984, Warren AFB, Cheyenne, Wyoming
La Warren Air Force Base a Cheyenne, nello stato americano del Wyoming, registrò un messaggio che uno dei suoi missili balistici intercontinentali Minuteman III era sul punto di lanciarsi dalla sua base sotterranea a causa di un malfunzionamento del computer. Per prevenire il possibile lancio, un mezzo corazzato fu parcheggiato in cima alla base sotterranea di lancio.
(Fonte: Shaun Gregory, The Hidden Cost of Deterrente: Nuclear Weapons Accidents, Brassey’s UK, London, 1990, p.181-2)

venerdì 27 aprile 2007

Elle


Liz Ferrin che guarda dal finestrino del treno

Leggeva Elle.

Il sole primaverile trapassava l’opaca superficie del finestrino producendo il riflesso della pagina sul vetro, lei poteva avere vent'anni.

Giovane ma non per questo spensierata, anzi vigile. Al mio ingresso nella carrozza mi aveva dedicato un’occhiata indagatoria quanto discreta per poi, dopo essersi rassicurata sulla mia inoffensività, immergersi nuovamente nella lettura della rubrica di moda della rivista.

In aprile la radiazione luminosa di primavera ha qualcosa di particolare, è un peccato che, arrivata la sera, il sole sia costretto a tramontare. Si effonde una luce inconsueta, quella della quale un abile pubblicitario si potrebbe voler servire per far apparire ogni cosa, anche un semplice filo d'erba, nella sua parvenza migliore.

La campagna, che alterna con gusto cromatico campi arati a prati accesi di un verde brillante, casupole isolate e fatiscenti a masserie di nobili origini, scorre veloce sotto i binari del treno lanciato all’inseguimento della prossima stazione. Qualcosa nell'aria che si respira rende tutto più interessante, si scopre addirittura di aver sempre visto e di non aver mai guardato i cavi dell’alta tensione, abbandonati tra le braccia di quei mostri di lamiera protesi verso l’alto, presuntuosi e arroganti come invadenti visitatori insinuatisi in un contesto che a loro non appartiene. La luce della primavera illumina prima di tutto gli animi.

Rimane invece oscura la ragione per la quale identità sconosciute, incontrate per caso in una carrozza di un regionale, al tavolino di un bar, ad una fermata d’autobus o nella sala d’aspetto d’un dottore, riescano a diventare inconsapevolmente motivo di ispirazione, oggetto di osservazione e di divertita contemplazione.

Un fischio lungo e nostalgico come una voce che viene dal passato, il treno inizia a rallentare, il paesaggio si fa più urbano, al posto delle casupole villette a schiera bianche intonacate da poco, un minuto di attesa ed ecco la stazione, signori si scende.

Il giornale appoggiato sulle ginocchia, il capo reclinato sul poggiatesta, gli occhi chiusi in un’espressione distesa e soddisfatta.
Le labbra che si sfiorano.
Non leggeva più.

Sognava.

mercoledì 25 aprile 2007

Il nuovo che avanza



"Oggi c'è una luce baltica," disse Enzo quando entrai in redazione. Puliva gli occhiali con un foglio di giornale e guardava dalla finestra con miope vaghezza, dietro il velo dei suoi cristallini infeltriti. La pila dei quotidiani, penco­lante come una babele cartacea sulla scrivania, portava già i segni del suo intervento: giornali stropicciati, ritagliati, ac­cartocciati, giornali penduli come tovaglie usate sopra i cas­setti aperti, e quelli di ieri in mezzo a quelli di oggi, come lattuga dimenticata nel frigo.

"C'è una luce baltica," disse di nuovo Enzo. Che amava ricevermi con una descrizione enfatica delle condizioni atmosferiche, interpretate come un perenne rimprovero del vasto mondo alla nostra angusta redazione. Baltico, dun­que, non era solo il ciclo della metropoli - per altro banal­mente cinerino e pregno di umide polveri industriali, come sempre -; baltico era l'umore di Enzo, che avrebbe voluto essere altrove, probabilmente su qualche deserto molo di Leningrado che anni prima lo aveva visto farneticare di li­bertà e leggerezza davanti all'enorme mare, e subito dopo dettare al giornale uno di quei suoi articoli così forti e cre­dibili proprio perché così oltraggiosamente privati.

Difatti Enzo condusse rapidamente a consunzione la propria cosiddetta carriera: fu rinnegato dal direttore per il suo pertinace rifiuto di consultare "i dati e le fonti", sem­brandogli già soverchia la fatica di schiodarsi dal cervello e dal cuore ciò che vedeva e sentiva. Era finito ad occuparsi, insieme a me, delle due paginette quotidiane denominate "Vivicittà": guida ragionata alla pulsante attività culturale, ricreativa e ludica della nostra metropoli.
Leggevo in silenzio, cercando vanamente di interpreta­re l'articolo di fondo del direttore, ricco di dati e di fonti. Dalla finestra biancheggiava la mediocre luce urbana. Chie­si a Enzo: "Hai pensato a mandare qualcuno al Museo della Calza?" Naturalmente non ci aveva pensato.

Il Museo della Calza apriva i battenti giusto quel po­meriggio. Era una delle tante iniziative del nuovo assessore al tempo libero, la cui evidente premura era impedire che il tempo di noi cittadini potesse realmente liberarsi da im­pegni e scadenze.
Un fiorire incessante di mostre e conve­gni, inaugurazioni e conferenze, dibattiti e rassegne prov­vedeva a riempire ogni possibile vacanza: perché tutto po­teva capitare, tranne che un angolo della nostra vita rima­nesse vuoto.
Allestito da un apposito manipolo di studiosi del costu­me, con l'assistenza economica di un celebre sarto (quel Mineo già inventore della scarpa-calza e del monopantalo­ne), il Museo della Calza occupava cinque o sei locali della Galleria d'Arte Moderna. La grande idea era che le calze fossero indossate non solo dai manichini dello scultore trans-sintentico Kelvin Lubin, ma anche da modelle e mo­delli vivi, almeno in apparenza.

Sapevo che l'acida acrimonia per quel genere di cose, da me condivisa e incoraggiata, conviveva, in Enzo, con il fermo desiderio di nuocere giorno per giorno al prestigio e alla sensatezza delle nostre due paginette, aprendole gene­rosamente a quanto di peggio ci accadeva intorno. Il Museo della Calza avrebbe dunque avuto, per la dolosa malevolen­za di Enzo, il massimo rilievo sul nostro giornale.
Il giorno prima, del resto, Enzo aveva voluto dedicare il titolo più importante al nuovo negozio di oggetti di tartaru­ga aperto in centro, "La lepre sconfitta". Sull'ospedale degli abat-jours, dove si riparavano lampade di qualunque tipo, Enzo aveva fatto scrivere addirittura tre articoli; era perso­nalmente intervenuto all'inaugurazione della Casa della Liquerizia; e aveva affidato una rubrica quotidiana alla famo­sa Kumella, astrologa dell'orecchio nonché autrice di un importante volume sulla psicoterapia dei gatti, conosciuta e subito ingaggiata in occasione del convegno internazionale sulle discipline eterodosse.

"Il Museo della Calza è importante", ghignò Enzo acca­rezzandosi il mento. Capii subito che la luce baltica era per il momento dimenticata, in favore della quotidiana azione devastatrice che con tanta allegra cura provvedevamo ad in­fliggere al giornale. Con grande soddisfazione, per giunta, del direttore, i cui convinti elogi alla vivacità culturale delle due pagine a noi affidate aggiungevano ulteriore sapore alla nostra scellerata minestra.
Considerammo rapidamente l'opportunità di fare posto al Museo della Calza spostando in seconda pagina la rubri­ca di Kumella, l'intervista all'architetto Cornieti sulla furen­te polemica in corso a proposito del colore delle sedie sco­lastiche, il servizio sulle sfilate di cuffie da bagno e addirit­tura l'articolo di Albino Scuteri - grande firma del giornale - sulla nuova chiesa aperta vicino all'aeroporto dalla Coca Cola, con il campanile a forma di lattina.
"Spostiamo anche Scuteri in seconda?", chiesi preoccu­pato a Enzo.
"Anche Scuteri"
"Non l'abbiamo mai fatto."
"C'è sempre una prima volta. Scuteri lo convinco io".
"E la Coca Cola?"
"Che c'entra la Coca Cola?"
"È il nostro principale cliente pubblicitario."
"Chi se ne frega."

Enzo decise che l'intervista a Kevin Lubin, mago dei manichini, l'avrei fatta io. A Mara Ginco, esperta di moda, l'articolo di colore. Una praticante, probabilmente Cerasio Giada, si sarebbe occupata dell'articolo di cronaca.
"Cerasio Giada?", chiesi sgomento a Enzo.
"È la più adatta", rispose l'infame.
"Non ti sembra un po' troppo?"
"Per il Museo della Calza, questo e altro."

Cerasio Giada si era presentata pochi mesi prima in re­dazione, fortemente raccomandata da un caporedattore che l'aveva avuta come allieva alla scuola di giornalismo, non senza proficue ripetizioni in occasione di un week-end al mare.
Piuttosto adorna di giovanile bellezza, Cerasio Giada parlava ad altissima voce, come se fosse perennemente so­praffatta dall'inaspettato peso delle parole, e i discorsi le franavano intorno come una pila di piatti sfuggiti a un ca­meriere. Terminare le frasi non faceva parte non dico del suo bagaglio culturale, ma proprio delle sue esigenze: pro­nunciava con sommaria esuberanza le tre o quattro parole necessarie all'allestimento di un discorso, lasciando poi agli interlocutori il compito di riordinarle e, solo se indispensa­bile, di chiarirne il senso.
Ma soprattutto Cerasio Giada ci si era manifestata di­cendo "Piacere Cerasio Giada", dando modo a Enzo e a me di intraprendere una delle nostre tipiche discussioni: se fosse più grave presentarsi dicendo piacere, o anteporre il cognome al nome, o semplicemente chiamarsi Giada. Anche i primi articoli che sottopose alla nostra ansiosa curiosi­tà erano firmati Cerasio Giada; e Enzo, non nuovo a simili atrocità, si guardò bene dall'invertire i due pezzi della fir­ma. Sul giornale usciva sempre la firma Cerasio Giada: e mai nessuno, come Enzo aveva previsto, se ne lamentò, ri­tenendo, forse, che Cerasio fosse un nome maschile strava­gante e Giada il cognome, oppure che si trattasse di una studiata licenza, gravida di acuti ammiccamenti a un gior­nalismo anticonvenzionale.

Gli articoli di Cerasio Giada erano, a leggerli, quasi ru­morosi come l'originale. Le parole vi si accalcavano come una spensierata comitiva di amici, i punti e le virgole rotola­vano a casaccio tra una frase e l'altra come ciottoli scalciati, i gerundi tentavano, come vigili urbani, di riportare ordine ma aggravavano irreparabilmente la situazione.
Pure Cerasio Giada era da noi ben considerata: non so­lo perché nuoceva in modo decisivo al livello delle nostre pagine; anche perché affrontava qualunque argomento con un entusiasmo quasi commovente, sembrandogli sempre e comunque straordinario il febbrile attivismo della metropo­li e del tutto superfluo trovarne un bandolo o un significa­to. Al punto che - anche se non l'avremmo mai ammesso -la sua prosa delirante e felice finiva per lenire un poco il nostro cinismo e la nostra totale disillusione.
Cerasio Giada sarebbe andata al Museo della Calza come Hemingway a Cuba, questo era il punto. E noi sapevamo benissimo che il conclamato spasso che ci avrebbe procurato il suo articolo si sarebbe accompagnato, anche, a un'inconfessabile invidia per la sua capacità di trovare utile in sé, senza bisogno di giudizio alcuno, ciò che a noi appariva dolorosamente sce­mo.

Venne convocata per telefono. Si presentò con una ma­glietta arancione firmata dal sarto Mineo. "Sei sempre at­tenta alla notizia," sorrise Enzo. "Mi raccomando di intervistare il sindaco, gli intellettuali e il sarto Mineo, che è l'anfitrione."
"Anfitrione?", disse Cerasio e subito rise, abituata alle incomprensibili battute di Enzo.
Partì in motorino per la Galleria d'Arte Moderna, non senza che Enzo l'avesse ulte­riormente istruita: "Non dimenticare che il piede è fallico e la calza lo contiene. Questa è una pagina culturale."

Il pomeriggio ci permise, come sempre, di compilare con consumata abilità le nostre due pagine. Venne Kumella con la rubrica, dedicata, quel giorno, al rapporto tra Urano e il ciclo mestruale. Telefonai a Kevin Lubin che mi spiegò come i manichini siano una metafora della catalessi, poiché l'uomo non è mai del tutto vivo e mai interamente morto; poi citò le mummie egiziane, gli zombi e le statue etrusche, a me veniva in mente solo l'Upim ma non glielo dissi per non perdere tempo.
Poco dopo arrivò il pezzo di colore della Mara Ginco; mancava solo l'articolo di Cerasio Giada. Enzo andò a bere un caffè, tornò e si rimise, in piedi, a guardare il ciclo dalla finestra. Fumavo e cercavo di leggere i giornali, sapevo che stava per ricominciare a parlare della luce baltica e lo fece. "A Leningrado c'è un posto dove non c'è nulla. È davanti all'albergo Pribaltiskaya. Un piazzale immenso, di grosse pietre grige, davanti al mare. Non ci sono alberi, non ci so­no panchine, non ci sono persone, non c'è assolutamente niente. Si cammina per ore in lungo e in largo, ci sono solo il piazzale, il ciclo e il mare."
Lo lasciavo sempre dire, i suoi discorsi alla finestra era­no, dopotutto, una tregua patetica ma legittima in tutto quel rincorrersi di notizie fatue e articoletti queruli. Rim­pinzati di cose, e rimpinzandone per vendetta i lettori, noi si desiderava sopra ogni cosa il silenzio e il vuoto.
"Non ho mai visto niente di più bello di quel vuoto," disse ancora Enzo, "c'era un gran vento, il freddo pulitissimo, e mi accadde di fare questo gioco: mi mettevo ad un capo del piaz­zale, per esempio quello in bilico sul Baltico, e ci restavo per un minuto o due. Poi camminavo all'altro capo, fin sot­to l'albergo di vetro, e riguardavo il punto esatto dove ero stato in piedi. Fino a che non mi pareva di vedermici. Ci sono stato una mattina intera, davanti al Pribaltiskaya, e ho contato le pietre del selciato, settecentotredici dall'albergo al mare, quasi un chilometro di spazio deserto. Non è pas­sato nessuno."

Erano quasi le otto quando tornò la nostra inviata, na­turalmente entusiasta. Si mise a sedere alla scrivania dei collaboratori e accese il video. Battè velocemente il suo arti­colo, si alzò, estrasse da una enorme borsa del sarto Mineo due paia di calze omaggio e ce le regalò. Ci mise in mano la sua opera e se ne andò.
Così diceva l'articolo di Cerasio Giada:

"Da oggi anche la nostra città si annovera tra le città di livello europeo in maniera sempre più cospicua, con il pa­trocinio del sarto di fama europea ed extraeuropea Sabati­no Mineo, grazie al nuovo Museo della Calza con il propo­sito di valorizzare meglio la storia e il valore di questo pre­zioso accessorio, inaugurato dal sindaco alla presenza di molti operatori economici e studiosi del fenomeno.

Chi non ha mai affidato alle calze il compito di valorizzare meglio la propria personalità, affidandogli messaggi vuoi scherzosi vuoi erotici, vuoi la semplice igiene e decoro come simboli riconosciuti di un raggiunto benessere? Lo notava nella simpatica inaugurazione, alla Galleria d'Arte Moderna per l'occasione gremita di una folla assiepata di simpatizzanti e curiosi, il sindaco in persona, accorso all'inaugurazione in segno di profonda comprensione per tutta quella serie di fenomeni che fanno parte, ormai, della cultura di una collettività.

Mostrando scherzosamente i calzini blu, simpatica­mente definiti 'calzini da sindaco', il sindaco ha anche ap­profondito gli aspetti economici e commerciali del compar­to, che manichini del celebre scultore Lubin Kevin e mo­delli in carne e ossa, donne ma anche uomini entrambi di grande esperienza nella moda, portavano con naturalezza.
Favolosa la serie di calze da passeggio della Leasure, antisu­dore, le non-calze della stilista Barbara Menocchio, i collant ecologici di fibra di crusca, il gambaletto tanto in voga negli anni del femminismo tanto fiero del simbolo degli zoccoli come maniera per liberare il piede (simbolo fallico per ec­cellenza). 'Il piede come simbolo fallico? Ma tutto il corpo è un simbolo fallico/ ha detto il semiologo Cherlasco. 'È tutto molto interessante', dicevano in coro i visitatori da­vanti ai reperti, chi rimpiangendo la vecchia calza elegante di filanca o di lana leggera che faceva mostra di sé presso i piedi di alcuni dei modelli, chi ammirando le nuovissime creature della moda moderna, in seta e in altre impalpabili materie che designano comunque la voglia di movimento e di indipendenza di un'intera società.

'Sono felice di - ci ha rilasciato il sarto Sabatino Mineo, scherzosamente da qualcuno definito anfitrione - essere l'artefice della valorizzazione di un accessorio trascurato co­me la calza', alla Mostra era allegato un apposito catalogo con prefazione di Agostino Cherlasco e alcuni modelli, co­me i sottoscarpe napoleonici o addirittura precedenti, pur­troppo non disponibili per l'indisponibilità del favoloso Museo dell'Abbigliamento di Parigi.
'A partire dal - scrive Cherlasco nella prefazione - se­colo ventesimo, il piede come segno e come allusione ha cessato di essere veicolo di sofferenza/punizione, costrizione/nascondimento.'
'Dal piede nudo della Vergine che schiaccia il serpente al piede flessuoso e diversamente vindice delle adolescenti del Duemila, che Mineo ha saputo genialmente rivestire con i semicollant trasparenti della linea Eden, corre come una rivelazione libertaria e definitiva, vanamente costretta e compressa, nei secoli, dal terrore del piede come terrore del fallo.'

Una conferma, dunque, che il piede è veramente fallico: in proposito si terrà un convegno nella sala Mineo, con la partecipazione di numerosi esperti, e una curiosità per finire: la Mostra della Calza è itinerante e prossima­mente la prima tappa sarà a Leningrado, dove è stato alle­stito, essendo un segno delle nuove aperture sovietiche al­l'occidente, un grande padiglione sul piazzale dell'Hotel Pribaltiskaya".
Cerasio Giada

Lessi per primo il pezzo, e quando arrivai alle ultime ri­ghe non sapevo che fare.
Enzo, ignaro di tutto, mi guardava con un sorriso ingordo, godendosi i miei accenni di sghi­gnazzo e pregustando la lettura del nuovo capolavoro di Cerasio. Era quasi notte, e bisognava sbrigarsi. "Mando in tipografia?", chiesi facendo finta di nulla. "No, perché? Lo voglio leggere anch'io."
Dissi ancora: "Non c'è niente di interessante, solita ro­ba." "Come non c'è niente di interessante? Non è possibi­le! Cerasio è geniale, il Museo della Calza fondamentale, non può che essere un articolo straordinario. Dai qua."

Glielo diedi, pensando che tanto lo avrebbe letto più tardi in tipografia, o l'indomani sul giornale. E mi chiede­vo, intanto, perché risparmiargli quella stupida notizia, do­potutto un piccolo sputo in più in una vecchia e ben nota palude.
Non ci eravamo mai risparmiati niente, nessun ol­traggio all'intelligenza andava mai sprecato, nemmeno una briciola della demenza onnivora che governa la nostra me­tropoli europea era scampata al nostro assaggio, che im­portava se il Museo della Calza sarebbe andato ad occupare il mitico piazzale vuoto di Enzo a Leningrado?
Prima o poi, pensavo, tutto sarebbe diventato un solo, immenso Museo della Calza, Cerasio Giada sarebbe stata assunta, "Vivicittà" avrebbe raddoppiato le sue pagine, perché farne una tragedia?
Se di tragedia si trattava, era già accaduta, irrepa­rabilmente, molto tempo prima, mentre Enzo se ne stava in giro per il mondo, io ero un giovane pieno di ambizioni e leggevo i suoi articoli con emozione e reverenza.

Pure, non mi riusciva di considerare l'incidente come uno dei tanti, e aspettavo che Enzo arrivasse alle poche ri­ghe finali con un senso di imbarazzo e di pena: due senti­menti che credevo di non saper più provare. Mi chiedevo in quale modo scherzoso sottrarre Enzo all'irreparabile di­sastro che stava per colpirlo, ma non mi veniva in mente nulla.

Enzo terminò impassibile di leggere l'articolo. Lo riles­se tutto e non diceva niente. Si alzò, prese a guardare la notte con le braccia dietro la schiena.
Quando tornò a sede­re, prese in mano l'articolo, corresse gli errori di sintassi più grossolani, fece il titolo ("Dimmi che calze hai e ti dirò chi sei") e mandò tutto in tipografia.

Chiesi: "Te la sei presa?"

Tornò alla finestra, fissò lo sguardo nel buio e disse:
"Sembra la notte di Edimburgo."


Davanti al Baltico
Il nuovo che avanza
Michele Serra