mercoledì 28 marzo 2007

Cose da bambini



Maggio 1939.
Dieci centesimi di dollaro per acquistare il numero 27 della rivista
DC Detective Comics.
In copertina, per la prima volta, un uomo mascherato di nero e grigio con un mantello viene raffigurato mentre si libra sui tetti della città.
"Starting this issue: the amazing and unique adventures of THE Batman!"
, Il Batman. E non è un errore.
Batman come nome proprio semplicemente non esisteva ancora, ci si riferiva a lui come a "L'uomo pipistrello".
Con il passare degli anni Batman è finito per diventare un nome proprio, un nome che non ha più bisogno dell'articolo determinativo davanti.

Il Batman di oggi è una figura moderna, oscura e intimista, che si muove in una città neogotica, cupa e ostile, dove la separazione tra vittime e carnefici è netta.
Non per niente si chiama Gotham City.

Certo, immagino che qualcuno sia già pronto a etichettare l'argomento come infantile, puerile e bambinesco.
Appunto.
E' questo il tipo di persona che mi dà spesso lo stimolo per scrivere. Sono questi semplificatori che relegano argomenti come questi a relitti della memoria che senza un motivo ben preciso si è scelto di seppellire sotto una supponenza antipatica e illusoriamente adulta che provocano la mia reazione.
Ergo, se scrivo è anche colpa loro.

Batman non è un personaggio per bambini. La sua figura emoziona adulti che sanno guardarsi dentro o meglio, che vogliono guardarsi dentro.
Direi che è il suo lato profondamente umano a renderlo un personaggio così avvincente.
Non stiamo parlando di Superman, di un extraterrestre con il tirabacio sulla fronte e il sorriso di chi sa di potercela fare sempre e comunque; uno che la notte porta a spasso per i cieli di Metropolis illuminata la stessa donna che quando ha gli occhiali lo chiama Clark Kent e lo considera innocuo quanto imbranato.
Batman sa che ogni notte potrebbe essere la sua ultima.
Nonostante egli tenti di eccellere in ogni suo gesto e azione, a differenza di tanti altri supereroi, egli può fallire. E fallisce.
Ma lo ritroviamo sempre in piedi, come ci si aspetta da un vero eroe.

Ah sì? E chi è un eroe?
L'allenamento fisico, lo studio, l'abnegazione creano uomini brillanti, forti ed eclettici ma sono le scelte, solo quelle, a identificare uomini più o meno valorosi come eroi.
Batman è un eroe perchè ha fatto una scelta.
Ha rinunciato a una vita passiva ed egocentrica per difendere la giustizia con tutte le sue energie.
Egli è un fondamentalista, un fanatico, la sua lotta al crimine non è un dovere morale, è un bisogno dell'anima, una risposta all'inconscio senso di colpa che lo affligge da quando ha visto uccidere sotto i suoi occhi i suoi genitori da un rapinatore quando era bambino.
Batman è diventato l'uomo pipistrello quel giorno, quando si è reso conto che la spensieratezza si può tramutare in vuoto nell'intervallo di alcuni spari.
Quando si è chiesto se avrebbe potuto in qualche modo impedire tutto questo.
La risposta non l'ha trovata, perchè è la domanda che non esiste.
Però, ogni volta che assicura un criminale alla giustizia la sua sete di riscatto, quel senso di colpa irrazionale quanto nascosto, si attenua per poi ricomparire in tutta la sua devastante forza destabilizzante e opprimente.

Sconfiggere il male è la sua lotta, infinita e sfibrante, il Male è espressione di una società malata e il suo colpire singoli individui non cancella la malvagità, libera soltanto il posto per nuovi criminali pronti a colmare i vuoti lasciati.
E' questa in realtà la notte dell'anima che avvolge questo cavaliere dell'ombra, inseguito da se stesso come dal suo peggiore nemico.

L'oscurità, le tenebre nelle quali si aggira con grande disinvoltura sono le stesse che si porta dentro, un elemento al quale è abituato, un qualcosa che ha imparato a conoscere e che ha imparato a usare come alleato.
Ogni giorno, al calar del sole esce e affronta se stesso, la sua paura, i suoi limiti e lo fa con un costume e una maschera, con un comportamento da squilibrato che certamente non si può definire neanche in minima parte "sano".
La verità è che egli non può ostentare una sanità mentale di molto superiore ai suoi pazzi nemici, il Joker, Duefacce e Enigmista, anche loro portatori di improbabili maschere e costumi.
Chi può vantare a questo mondo una salute psichica senza sbavature e zone d'ombra? Non noi, non Batman.

Cio che distingue Batman dai suoi antagonisti quindi, non è tanto il modo di porsi e di vedersi quanto gli obiettivi che vuole raggiungere, quelli legati, nel caso del Cavaliere Oscuro, alla giustizia e alla battaglia contro l'oppressione degli indifesi.
E allora l'uomo pipistrello è in continua lotta contro se stesso, contro gli altri, tragicamente asfissiato tra concetti la cui applicazione pratica fa la differenza tra un uomo qualunque e un uomo di nobili ideali, giustizia o vendetta, paura o coraggio.

E' stato già detto, sono le scelte che fanno di un uomo un eroe.
E Batman sceglie anche di essere Bruce Wayne (non il contrario), ricco miliardario a tratti arrogante a volte altruista e generoso; ma non lasciatevi ingannare questa è l'identità realmente falsa, una parte recitata, priva di coerenza e continuità ma utile, in quanto Batman ha la necessità di vestire una maschera comune dietro alla quale nascondersi quando è giorno e la sua missione deve aspettare.
Per quanto sincera, la personalità di un uomo che sceglie di avere due identità inquieta, impaurisce.
Bruce Wayne ricco, brillante e famoso invece di attirare le donne, le allontana, le intimorisce. Non riesce a essere sereno, con o senza maschera è continuamente vigile, attento, sotto sforzo, è sempre Batman. E quando una donna scopre un animo così sofferente non può che ritrarsi, soprattutto se le cause di tale tormento interiore le rimangono nascoste.
Anche se amici e alleati lotteranno al suo fianco, Batman continuerà ad essere solo, a vigilare sugli altri per proteggere se stesso.

Lo so, abbiate pazienza, gli adulti non perdono tempo con i fumetti, queste sono cose da bambini.


La scomparsa dei fatti



«C'è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggiornarsi… C'è chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva Victor Hugo, "c'è gente che pagherebbe per vendersi"».


L'arte del parlar d'altro

II sistema più semplice per cancellare i fatti è - molto banalmen­te - quello di non parlarne. Ignorarli. E sostituirli con altri della stessa specie e della stessa importanza, usati come diversivi, co­me coprenti. Non sempre, però, i fatti sostitutivi sono disponibi­li quando occorrono: in questo caso, non resta che inventarne qualcuno di sana pianta, oppure gonfiarne uno già esistente, ma di poco conto.

Il maestro ineguagliato nell'arte del parlar d'altro è Bruno Ve­spa col suo teatrino quasi quotidiano di Porta a Porta su Rai 1, la rete ammiraglia del cosiddetto servizio pubblico. Dopo la con­danna in primo grado di Cesare Previti al processo Sme per cor­ruzione del giudice Renato Squillante, Vespa si occupa del Viagra.
Quando il tribunale di Milano condanna Marcello Dell’Utri per estorsione insieme a un boss mafioso, a Porta a Porta si parla di calcioscommesse con Aldo Biscardi e Maurizio Mosca.
Quan­do il Parlamento europeo boccia Rocco Buttiglione, aspirante com­missario Uè, per le sue tirate contro le donne e i gay, Vespa con­voca Alba Parietti e alcuni malati in stato comatoso per racconta­re il loro improbabile risveglio dal coma.
Quando il centrosinistra vince in sette collegi su sette le elezioni suppletive del 2004, a Por­ta a Porta si discute dell'Isola dei famosi, con Simona Ventura & Co.
Quando il tribunale di Palermo condanna Dell'Utri a nove anni per mafia e quello di Milano dichiara Silvio Berlusconi re­sponsabile del reato di corruzione di Squillante, ma lo salva per prescrizione grazie alle attenuanti generiche, ecco un bel dibatti­to Fassino-Tremonti sul presunto «taglio delle tasse» del governo di centrodestra e, l'indomani, una fondamentale puntata sui reality show con Del Noce, don Mazzi, Crepet, Zecchi, Paola Perego, Carmen Di Pietro e le gemelle Lecciso.
La sera in cui il presi­dente Ciampi boccia la riforma dell'ordinamento giudiziario del ministro della Giustizia Roberto Castelli in quanto «palesemente incostituzionale», Porta a Porta approfondisce l'ultimo film della coppia Boldi-De Sica, Christmas in Love.
Quando Previti viene condannato definitivamente in Cassazione a sei anni, l'amico Bru­no opta per un tema ben più attuale: la dieta mediterranea. Quan­do la Corte d'Appello di Palermo condanna per mafia a cinque anni e quattro mesi il presunto «padre nobile» dell'Udc Caloge­ro Mannino, puntatona sul delitto di Cogne: una saga evergreen giunta ormai alla trentesima puntata.

La saga di Cogne
Non c'è miglior emblema dell'arte del diversivo che la sventa­gliata di trasmissioni, approfondimenti, dibattiti, reportage e «spe­ciali» su questo infanticidio perpetrato - secondo il giudice di pri­mo grado - dalla madre del piccolo Samuele Lorenzi nel gennaio 2002. Una tragedia piuttosto ordinaria, come se ne verificano a migliaia ogni anno nel mondo, viene eletta da Vespa a evento del­l'anno, anzi del decennio, gonfiata ed enfatizzata a dismisura, tra­sformata in «giallo» a viva forza, anche se di elementi misteriosi e appassionanti ne contiene molto pochi. Il tutto per oscurare ben altri processi dell'anno, o del decennio: quelli agli uomini più po­tenti della storia d'Italia passata e presente.

E allora ecco mate­rializzarsi nello studio di Porta a Porta il plastico della villetta di Cogne, col tettuccio rialzabile e, riprodotte in miniatura, le varie stanze dello chalet con tanto di arredi, pigiami, ciabatte, copri­letto insanguinati. Ecco le intercettazioni lette e rilette fino alla noia dalle voci calde di appositi attori. Ecco la compagnia di gi­ro dei presunti «esperti», dalla giornalista tuttologa Barbara Palombelli al baffuto psichiatra-prezzemolo Paolo Crepet al barbuto criminologo prèt-à-porter Francesco Bruno, che chiacchie­rano e sbrodolano per decine di puntate ripetendo sempre le stes­se ovvietà, destreggiandosi fra una macchia ematica e un fram­mento osseo, in barba ai più elementari diritti alla privacy e ai più basilari sentimenti di umana pietà per un dramma familiare che ha per vittima un bambino di tre anni. Tant'è che bisognerebbe pregare il criminologo, o lo psicologo, o tutti e due di analizzare il Vespa medesimo, per tentar di capire quali atroci perversioni lo conducano a tuffarsi con tanta voluttà nel sangue di un mino­renne assassinato.

Intanto si susseguono le udienze e le sentenze dei processi al sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, imputato di mafia e alla fine dichiarato colpevole ma prescritto; e al premier in carica Berlusconi, al suo braccio destro Previti e al suo braccio sinistro Dell'Utri. Ma Vespa non ha tempo per quisquilie tipo ma­fia e politica, falsi in bilancio, corruzione giudiziaria e così via: ha altro da fare. Così del processo di Cogne tutti gli italiani sanno tut­to. Dei processi ai politici di ieri e di oggi nessuno sa nulla, a me­no che, oltre a guardare la televisione, non si abbia il brutto vizio di leggere qualche giornale o qualche libro.

La scomparsa dei fatti
Marco Travaglio

domenica 25 marzo 2007

Sabato sera



Io le sigarette non le fumo, le strazio!
Me le accendo qualche volta dopo mangiato, quando ho bevuto più del solito, e mi diverto a buttar fuori il fumo senza aspirarlo. È un modo di pas­sare il tempo, o forse solo di finire le sigarette degli altri: non ho mai comprato un pacchetto in vita mia.
Quel sabato sera avevo mangiato anche bene, per la verità: cinque assaggi di primi, un carpaccio di carne, una vodka schifosa al limone, vino buono. Prezzo eccezionale: gratis! Offriva Joe Pratesi.

Mezz'ora dopo eravamo a casa di Chiarina, un'a­mica di Pratesi. Lì ho diluito, col ghiaccio e con un amorevole senso delle proporzioni alcoliche, nume­ro due drink fatti col Campari. Poi abbiamo iniziato a chiamarci a vicenda sui telefonini, e tutti si diverti­vano: non era già un sabato sera fantastico?
Dopo i due drink e tre sigarette di seguito, sprez­zanti del pericolo e incuranti del rischio di invecchiamento precoce che da il vivere le notti senza programmi, decidiamo di spostarci al «Buongiorno Tristezza», un bar per «gente sconosciuta che cerca nei sorrisi la libertà perduta». Più che un bar, una cooperativa di malelingue, dove, pur conoscendosi solo di vista, tutti pensano ugualmente di sapere, e poter dire, tutto di tutti; e quello che non sanno se lo inventano.
«Vedi quello,» mi dice sottovoce Pancio «è l'ex fi­danzato di Chiarina. Lei sta facendo di tutto per scordarselo, ma non ci riuscirà.»
Mi accorgo che mi sta girando vorticosamente la testa.

Esco dal «Buongiorno Tristezza» e raggiungo il gruppo. Una ragazza vestita da schiava propone, senza troppo entusiasmo, di andare al mare. Joe Pra­tesi, che a casa ha tre figli e una moglie ad aspettarlo, scivola verso la macchina. Quando capisco che farei meglio a seguirlo, è già troppo tardi: vedo la macchi­na schizzarmi via davanti. L'ex ragazzo di Chiarina inforca la moto e se ne va. Ho l'impressione che lei lo segua con lo sguardo fino a che lo può vedere, e con la mente fino a che non si innamorerà di un altro.

«Andiamo tutti al mare?» insiste la schiava che or­mai più nessuno ascolta, e, invece di andare al mare, di lì a mezz'ora siamo davanti a un altro bar. Questo si chiama «Buonanotte ai Persi», è più piccolo del «Buongiorno Tristezza», e dentro non c'è pratica­mente nessuno.
«Si va in discoteca?» propone la schiava che tutti continuano a ignorare.
Chiarina adesso ha veramente uno sguardo triste, Pancio mi chiede una sigaretta (a me?!), Vetusta par­la a bassa voce con la schiava. La serata sta rista­gnando.
Siamo al pareggio delle emozioni. Poi improvvisa­mente passa in vantaggio la noia.

Trent'anni alta mora
Leonardo Pieraccioni

venerdì 23 marzo 2007

Nessun risvolto penale


Le tre Grazie di Sandro Botticelli

Questa storia che i giornalisti hanno subito preso ad etichettare come “Vallettopoli” mi ha fatto tornare alla mente un racconto breve che lessi qualche anno fa. Non tanto per analogie della storia in se', quanto per l'affresco assolutamente azzeccato dello schifo che dilaga nel mondo dello spettacolo, della politica e della grossa finanza.

Alla fine, con tutta probabilità, anche questa storia finirà in un nulla di fatto. Sebbene John Henry Woodcock si definisca “un cinico che ha ancora voglia di illudersi” e nonostante, in effetti, sia apprezzabile che ancora ci siano magistrati così appassionati al proprio lavoro, non credo che un sistema (il sistema “società”) marcio a tal punto sia davvero recuperabile.

Qualcuno dirà semplicemente che la vicenda non ha “nessun risvolto penale”. E tutto – forse – procederà come prima...

* * *
Prima di iniziare, una premessa importante: per quanto ci siano stati dei morti di mezzo, la storia che racconterò non ha risvolti penali. Non li ha avuti e non li avrà. Forse avrebbe potuto averli. Ma tutti coloro che indagarono su di essa furono incapaci di trovare una qualunque violazione, per quanto lieve, delle leggi esistenti. Questo è un dato di fatto che non si deve dimenticare.
È possibile che alcuni investigatori abbiano intenzionalmente evitato di vedere illegalità anche trovandosele proprio davanti al naso. Ottimi “segugi” sanno bloccarsi di colpo quando si accorgono che stanno per entrare in un nido di vipere. Ma altri, vi assicuro, fecero l'impossibile per andare a fondo. Spinti in primo luogo da una profonda indignazione morale, per cercare di dare alle indagini un epilogo giudiziario le tentarono tutte, senza risparmio e senza riguardi per nessuno. E se fallirono non fu tanto a causa di insabbiamenti o di manovre trasversali, come si potrebbe pensare, quanto perché non trovarono elementi significativi per imputazioni di sorta. Il problema – a pensarci bene – dovrebbe essere affrontato da un altro punto di vista. Come scrivono molti studiosi di diritto, sono le leggi che creano i delitti e non esistono leggi che rendano delitto la grettezza o l'abiezione morale. Servirebbero vie differenti da quella giudiziaria per punire certi comportamenti: quella delle sanzioni etiche, per esempio, o quella delle esecrazioni civili. Di conseguenza, se una società nel suo insieme non ha la forza di sanzionare eticamente o di esecrare civilmente tali comportamenti, perché si cercano poi capri espiatori e ci si indigna per le indagini “malfatte”, per i trattamenti preferenziali, per il sistema giudiziario che non sa punire? Forse sarebbe ora di smetterla di deplorare a buon mercato soltanto le mancanze altrui, vere o presunte...
Insomma, questa storia non ha avuto risvolti penali e, come detto, non ne avrà neppure nel futuro. Il tempo passa – ormai sono trascorsi più di dieci anni – ed è sempre più improbabile che emerga all'improvviso qualche novità realmente significativa dal punto di vista processuale: le persone vogliono dimenticare, il dolore si attenua, la rabbia svapora. Ora il fascicolo relativo al caso giace ormai archiviato, sepolto tra decine di migliaia di faldoni simili, e sta ingiallendosi e riempiendosi di polvere negli umidi sotterranei del Palazzo di Giustizia di ***.
Essendo priva di risvolti penali, dovrò raccontarvi questa storia con colori tenui, illuminandone alcuni elementi e lasciandone altri, non indispensabili, nell'ombra. Se, nel corso delle indagini, fossero stati riscontrati comportamenti dolosi o colposi, se fossero emersi possibili capi di imputazione a carico di qualcuno dei suoi protagonisti, se almeno fossero state appurate obiettive omissioni o carenze nelle indagini, ebbene, tutto sarebbe stato diverso, e io mi sentirei più libero: luoghi, fatti, persone reali potrebbero ricevere ben altra “pubblicità”. Invece questa storia si configura soltanto come una vicenda privata, assolutamente privata, e come tale va trattata con prudenza. È necessario sia che non venga collocata con facilità nello spazio e nel tempo, sia che non solleciti facili allusioni: la fama di alcuni dei suoi protagonisti, oltretutto, pesa come un macigno. Che cosa accadrebbe se si facessero nomi e cognomi o anche solo venissero forniti elementi sufficienti a identificarne gli attori principali? Ne seguirebbero esose richieste di danni, indignazioni prezzolate, campagne di stampa denigratorie.
Evito dunque le trappole di una ricostruzione storico-giudiziaria per restare nell'ambito di un'indagine di costume. Narrando questa storia a pennellate larghe rappresenterò più serenamente un certo spaccato del mondo in cui viviamo. E là dove serve, a parte alcuni banali camuffamenti, il silenzio sostituirà sempre la falsificazione. Ora iniziamo.

* * *
Luca – chiamiamolo così – era il primogenito di un maresciallo dei carabinieri. Dopo di lui erano venute ben tre sorelle.
Il padre era stato abbastanza fortunato nella sua carriera nell'Arma: aveva sempre prestato servizio in luoghi tutto sommato tranquilli, la provincia di Sondrio, la Val d'Aosta, oppure quelle zone dell'Italia centrale dove tutti vorrebbero andare per avere l'olio buono, i salumi di una volta, i formaggi saporiti eccetera. Insomma, quelle aree dove gli indici di criminalità non sono troppo alti, dove si mangerebbe con lentezza anche un hamburger bruciacchiato e dove il maresciallo dei carabinieri continua ad avere un considerevole carisma. Lui, in particolare, con terrorismo, malavita organizzata, delinquenza urbana e cose simili non ebbe mai molto a che fare. I suoi polli erano qualche ladro di macchine, ubriachi che si picchiavano nei bar (gente che bisogna prendere con le molle, in ogni caso), rari svaligiatori di villette, perfino pescatori o cacciatori di frodo. Qualche volta aveva arrestato spacciatori di droga o sfruttatori. Delinquenza di provincia, insomma. Due o tre le sparatorie a posti di blocco, un solo scontro a fuoco davanti a un ufficio postale. In vent'anni di servizio soltanto quattro omicidi, e tutti in ambito familiare.
L'uomo era sempre stato seguito, nei suoi trasferimenti, dalla moglie, una donna molto dolce che – vien riferito – agli occhi dei superiori del marito aveva un unico ma forse non del tutto trascurabile “difetto”: non era cattolica, non andava mai a messa e trascinava a volte il marito a riunioni di piccole confessioni religiose minoritarie. Ma su questo punto le nostre fonti manifestano una evidente ritrosia ad aggiungere ulteriori particolari. In ogni caso il “difetto” non pare avesse comportato particolari difficoltà per la coppia.
Il maresciallo, fortunato come carabiniere, non lo fu però altrettanto come uomo. A quarantadue anni, ancora nel pieno del vigore, ancora forte e fiero di quanto aveva fatto e di ciò che era diventato, si ritrovò con un tumore di quelli che non danno scampo. Così in quattro mesi passò dalle prime visite dal dottore per un vago malessere agli esami più approfonditi negli ospedali militari e civili, poi alle lunghe degenze e alle terapie dolorose e inutili, quindi alla morte in casa, nel suo letto al primo piano della villetta che ospitava l'ultima stazione comandata (e che fino alla fine si illuse di continuare a comandare). Una lunga tragica lotta. E vari medici dissero che i quattro mesi intercorsi dalla scoperta del male alla morte sarebbero stati al massimo due se l'uomo, in uno sforzo disperato, non avesse resistito con le unghie e con i denti soltanto per raggiungere quell'anzianità di servizio che permise alla moglie di ottenere qualche soldo in più di pensione. La famiglia, la famiglia sopra ogni altra cosa...
Al momento della morte del padre Luca aveva undici anni. Si ritrovò di colpo a essere l'unico uomo di casa. Potevano esserci dubbi che sarebbe diventato un carabiniere anche lui?

* * *
Carabiniere, dunque.
Carabiniere per una sorta di dovere morale, innanzitutto. Carabiniere poi per riconoscenza ad alcuni colleghi amici del padre. Carabiniere, infine, per le implicite aspettative di tutto il paese dove abitava. Non che la madre avesse mai chiesto al figlio di rispettare una sorta di “continuità” con la scelta di vita del marito. Tutt'altro. Più volte gli disse che lui doveva decidere da solo il proprio avvenire; e aggiunse spesso che il padre non aveva mai dato mostra di pensare che lui, l'unico figlio maschio, dovesse per forza seguirlo nella carriera militare. Chissà poi se il padre era realmente uno di quei carabinieri come li dipinge la retorica dell'Arma, tutti di un pezzo, dediti soltanto al dovere, fedeli fino alla morte alla propria missione: probabilmente sì, ma bisogna ricordare che la descrizione fatta deriva dalle parole di chi lo rimpiange o di chi porta la stessa divisa.
Probabilmente Luca volle diventare carabiniere anche per dare un senso a lunghi anni forse non di privazioni ma certamente di difficoltà. Doveva essere duro, per una vedova, tirare avanti con quattro figli, senza una casa di proprietà, senza il sostegno di parenti e con aiuti dall'Arma molto amministrativi e saltuari. Sarebbe stato meglio che il maresciallo fosse caduto in un conflitto a fuoco, sarebbero scattate previdenze ben maggiori.
Appena raggiunse l'età per farlo Luca presentò domanda di ammissione ai corsi per allievo ufficiale dei carabinieri. Difficile pensare che mirasse soltanto a una breve ferma per una esperienza transitoria. Più probabile una vera scelta di vita. Al termine del corso sostenne gli esami finali con ottimi risultati e iniziò il servizio vero e proprio nell'hinterland napoletano. Fu durissima. Seguirono due trasferimenti dall'estremo sud all'estremo nord della penisola, e viceversa, e sei mesi in missione in un paese dell'Africa. Poi un lungo servizio in una grande città nel quale, raccontano alcuni colleghi di reparto ma anche alcuni cronisti di nera di buona memoria, si distinse per coraggio personale e disponibilità umana. In tutto otto anni di servizio, dai diciannove ai ventisette. Poi, improvvise, le dimissioni.
Inspiegabili, leggendo le sue lettere alla madre, affettuose ma ermetiche.
Spiegabilissime, sentendo le tre sorelle unanimi: Luca si era stancato di dover seguire l'ombra del padre. Certo sarebbe stato interessante sapere di più e capire che cosa determinò una decisione tanto improvvisa: per esempio leggendo i fascicoli di servizio, i rapporti e le pratiche relative alla sua carriera. Ma come ben sanno gli storici e non solo loro, se tutti gli archivi in Italia sono spesso di difficile accesso, quelli dei carabinieri risultano assolutamente impenetrabili: da quasi due secoli custodiscono, con la stessa assoluta e incomprensibile solerzia, oscuri segreti di Stato e minime vicende personali.
Resta il fatto che Luca diede le dimissioni dall'Arma di sua volontà. Non ne fu cacciato, insomma, e su questo non ci sono dubbi. Possiamo dire che in qualche modo, finalmente, volle seguire la sua strada. Ora doveva sopravvivere, continuando ad aiutare la madre e le tre sorelle come aveva iniziato a fare dalla prima busta paga ricevuta.

* * *
Un ex ufficiale dei carabinieri che ha sostenuto duri corsi di paracadutismo e durissimi allenamenti di difesa personale, che ha protetto testimoni in processi di mafia oppure personalità politiche minacciate, che sa sparare con la maggior parte delle armi esistenti sulla faccia della Terra e non prova paura per nessun delinquente, questo ex ufficiale non incontra difficoltà a trovar lavoro. Se poi ha referenze eccellenti può ricevere anche offerte molto interessanti: offre certo più garanzie di quei buttafuori che, con occhiali scuri e completi neri, se ne stanno agli ingressi dei night e delle discoteche con aria da sceriffi.
Dapprima Luca fu assunto per sei mesi come responsabile alla sicurezza in una media azienda farmaceutica del Nord: doveva vigilare che i carichi spediti, medicinali molto preziosi, non venissero rubati da organizzazioni internazionali specializzate nel loro commercio in nero. Carichi che andavano anche all'estero e che non potevano finire nelle mani sbagliate.
Poi da cosa nasce cosa. Visto che era bravo – e che di lui qualcuno aveva parlato a qualcun altro, e questo qualcun altro a qualcun altro ancora – gli venne fatta un'offerta talmente interessante che non poté rifiutarla: soldi, davvero tanti soldi, per organizzare la protezione personale di un...
Ecco, qui è il caso di lasciare particolarmente nel vago questa ricostruzione. Innanzitutto – come detto all'inizio – per una questione che si potrebbe definire di privacy: troppo spesso di dimentica che tutte le persone hanno diritto a una loro dimensione di riservatezza, anche quelle che detestiamo. E poi capire esattamente di chi si sta parlando sposterebbe l'attenzione, distoglierebbe dal significato più vero di questa storia.
Quindi, per descrivere il nostro personaggio, mi limito a dire che era, e potrebbe ancora essere, un esponente della classe dirigente italiana in campo imprenditoriale con ottimi legami politici.
Questo “operatore economico” – industriale, finanziere, immobiliarista, non conta – era un uomo che disponeva di molte ricchezze e che subiva altrettante invidie. Per questo, ovviamente, aveva sempre usufruito di una scorta personale, garantitagli da certi suoi “amici”. Ma con il passare del tempo quegli amici in precedenza indispensabili erano diventati un po' meno amici: insomma, lui di loro non si fidava più e ora voleva un servizio di sicurezza personale organizzato in modo decisamente più professionale. Aveva bisogno di gente seria e che rispondesse solamente a lui, non ad altri. Si rivolse così a certa gente specializzata nel settore, che gli fece delle proposte che non gli piacquero affatto. Continuò a cercare (in realtà la gente che lavorava per lui e per il suo gruppo continuò a cercare per lui) fino a quando venne segnalato Luca. Subito tutti si ritrovarono d'accordo, era l'uomo giusto.
L'imprenditore lo assunse subito e lo incaricò di organizzare l'intero servizio di scorta. Luca dovette allora trovare almeno altre undici guardie del corpo. E dopo una lunga ricerca le trovò. Gente davvero fidata e capace: quattro italiani, due francesi, un inglese, un tedesco, dure russi e un portoghese – quest'ultimo era il più vecchio, aveva trentanove anni.
In poche settimane Luca si ritrovò a essere non soltanto il loro capo, ma anche il loro leader: sentirono la sua forza, la sua serietà, la sua compattezza morale. Due di loro hanno testualmente riferito di non aver mai nutrito dubbi: lui era il migliore di tutti non soltanto sul lavoro, ma anche come uomo. Mi hanno detto proprio così: “Lui era il migliore, anche come uomo”.
Un giudizio di gente che sa valutare certe qualità e che quindi ha un suo peso.

* * *
A livelli tanto elevati un servizio di protezione personale risulta essere un congegno molto complesso e che richiede al contempo preparazione e attenzione, rigore ed elasticità.
Innanzitutto bisogna vigilare sul capo, che viaggia su e giù per il mondo, che si muove in continuazione e spesso con decisioni improvvise, che salta da una casa all'altra e da un albergo all'altro, che supera confini di Stato e quindi va a ficcarsi in normative sempre differenti (per l'armamento della scorta). Un uomo che a volte vuole essere seguito molto da vicino, altre volte essere protetto molto da lontano. Insomma, è ben diverso garantire la sicurezza durante una partita di calcio in uno stadio affollato o nel corso di un incontro d'affari su una qualche sperduta isoletta oceanica; nel mezzo di un'assemblea di piccoli azionisti più o meno plaudenti o tra i dipendenti più o meno inferociti di un'azienda. E poi ci sono moglie, figli, parenti vari, tante altre “persone care” da tenere d'occhio. Insomma, un sacco di gente, gente che compare o che scompare all'improvviso, gente che se ne va e poi ritorna, gente che si offende sia quando vengono fatte domande sia quando non vengono fatte. Senza dimenticare che poi la guardia del corpo può anche diventare o essere ritenuto qualcosa di simile a un autostia, e perciò si ritrova a riaccompagnare a casa degli invitati tiratardi che abitano in brutte zone; oppure deve essere presente in orari imprevisti, nel cuore della notte, sapendo quando è bene essere visto e quando non essere visto. Luca aveva accuratamente organizzato l'intera macchina dei turni tra i suoi uomini. Ma spesso era lui in prima persona a coprire buchi ed esigenze improvvise, a far sì che tutto filasse liscio in ogni situazione. Rappresentava la rete di sicurezza per tutte le emergenze possibili. Dal che ne conseguiva un lavoro faticoso, con poche ore libere e poche ferie. Ma quell'impegno aveva i suoi concreti vantaggi.
Innanzitutto lui guadagnava molto, veramente molto. Tutto compreso era arrivato a prendere – tanto per farsi un'idea – dieci volte lo stipendio di ufficiale dei carabinieri. Il conto era presto fatto: fisso, straordinari, appartamento, macchina, pasti, rimborsi spese... Quando incontrava qualcuno dei suoi vecchi colleghi, e loro gli chiedevano come se la passasse (alludendo in primo luogo al suo trattamento economico) lui non diceva mai la verità. Se ne vergognava, quasi sentisse di aver in qualche modo venduto l'anima. Così rispondeva con una cifra comunque apprezzabile ma non superiore al trenta o al quaranta per cento di quanto prendeva effettivamente. Loro ne rimanevano comunque assai colpiti.
“In effetti son soldi”, riconosceva lui, “ma vi assicuro che non è bello esser sotto padrone... molto meglio servire lo Stato... Sono un po' pentito di aver lasciato l'Arma”.
E loro replicavano con espressioni poco convinte.
Insomma, Luca guadagnava molti soldi. Ma ne risparmiava tantissimi. Perché lui aveva uno scopo per quanto faceva. Doveva pensare alla vecchiaia di sua madre e all'avvenire delle sue tre sorelle: lui era l'unico uomo di casa ed era suo dovere preoccuparsi per il futuro. La famiglia, la famiglia sopra ogni altra cosa...

* * *
Ma forse il vero vantaggio di quel lavoro era un altro.
Luca poteva finalmente vivere in una dimensione differente. Basta con gli alloggi dimessi, con la vita di caserma, con le rinunce sugli acquisti, con il benessere visto soltanto da lontano. Luca risparmiava quasi tutto quanto guadagnava e, al contempo, poteva permettersi di vivere nel lusso, sia pure indiretto, e nei divertimenti.
Affrontiamo così un tema difficile da affrontare con delicatezza anche per rispetto verso persone che non ci sono più. Dalle notizie raccolte con difficoltà, dalle poche confidenze fatte da persone del giro, dalle mezze parole e allusioni di chi sa e non sa, emerge in ogni caso un quadro generale sufficientemente chiaro, anche se non esaustivo nei dettagli. Accontentiamoci di una visione d'insieme, non approfondita ma ugualmente significativa.
Luca – per il fatto di essere il pieno responsabile della sicurezza, per la sua presenza domestica negli orari più disparati, per le lunghe ore di viaggio trascorse insieme – entrò presto in grande dimestichezza sia con il capo sia con tutto il giro di amici e di conniventi del capo, un insieme di persone che un letterato definirebbe “una corte di Proci” e un giornalista d'assalto “una cordata di faccendieri”. Quando iniziai a studiare il loro modo di rapportarsi mi feci l'idea delle onde concentrinche create da un sasso gettato nell'acqua: esistevano dei “giri” più intimi e altri più lontani che andavano a intrecciarsi con altri “giri” creati da altri sassi gettati più in là nello stesso stagno... La “corte dei Proci”, il giro più intimo, pur rivendicando una personale rigorosa rispettabilità pubblica (costruita con sapienti “interventi” sugli organi di comunicazione di massa) non vedeva nel terreno della legalità – per usare un eufemismo – l'unica area dove esplicare una legittima attività economica. Con gli occhi fissi in cielo sull'unica Stella Polare che guidava la loro rotta, quella della convenienza personale e di gruppo, essi travolgevano spesso e volentieri norme del codice civile e non soltanto civile (di norma non arrivando, se non probabilmente attraverso intermediazioni più o meno volontarie, a reati di particolare gravità o esecrabilità sociale).
Nonostante la confidenza che si creò con il tempo, quasi certamente Luca venne sempre tenuto all'oscuro degli affari più immediatamente “operativi” e che costituivano le principali fonti di reddito della cordata; e altresì rimase fuori da tutte quelle pratiche ai confini e oltre i confini della legge. Si può ragionevolmente pensare che dei giri di mazzette per pilotare appalti, dei giochi delle tre carte per stornare contributi pubblici, delle speculazioni su notizie riservate o su aree demaniali (tanto per fare degli esempi) seppe poco o nulla. Innanzitutto perché – anche in relazione al suo rapportarsi con gli altri con atteggiamento formale rigoroso, quasi militare – egli continuava a essere percepito da tutti come un ex carabiniere e, come tale, non appariva del tutto controllabile. Ma più che la sua divisa esterna era la sua pratica quaotidiana a renderlo poco fidato in aree potenzialmente delicate dal punto di vista giudiziario, vale a dire in tutte quelle faccende nelle quali, prima o poi, un pubblico ministero sarebbe potuto andare a mettere il naso: tutta la banda sospettava che Luca davanti a un magistrato avrebbe detto la verità sempre, in ogni caso. Insomma, su certi argomenti non poteva essere ritenuto un uomo fidato perché troppo trasparente, troppo dalla parte della legge.
Dunque, proprio le qualità che lo rendevano tanto sicuro nel lavoro di protezione alla luce del sole si trasformavano in difetti in ambiti più riservati. E se lui mai si accorse che alcune delle attività dei “Proci” superavano i confini stabiliti dalle norme, probabilmente ciò accadde assai di rado e per violazioni molto modeste. E pare che lui abbia invitato gli interessati a sanare rapidamente le irregolarità. Questo a detta delle persone informate.

* * *
La familiarità, addirittura l'intimità, trovò invece meno inibizioni su un piano assai differente, quello dell'attitudine esistenziale. Non si trattò di un processo immediato ma lento, avvolgente, progressivo. I confini della morale e dell'etica, posto che esistano, non sono così precisi e stabiliti. Perfino l'uomo più rigoroso, trovandosi isolato in un contesto dove molti comportamenti illeciti appaiono leciti per tutti coloro che lo circondano, può venirne gradualmente sedotto e cedere, con piccoli scivolamenti successivi, fino a giungere a condotte personali che mai, in precedenza, avrebbe immaginato o accettato.
La banda dei “Proci” mangiava in grandi ristoranti, frequentava luoghi di ricchezza, organizzava feste, maneggiava denaro con grande facilità eccetera. E tutto ciò non accadeva in privato, nella riservatezza di un buen retiro, negli anfratti di qualche eremo di gozzoviglie, ma nel mezzo di relazioni sociali molto autorevoli. Ogni giorno, sempre più. Luca vide con quanta leggerezza paludate autorità e uomini considerati di rispetto sapessero venir meno alla parola data in pubblico, ai doveri predicati ufficialmente, alla proclamata dignità personale. Gente già benestante non nascondeva la propria ulteriore voracità. Iniziò a vedere con i propri occhi che molti potenti fingevano, sul piano formale, di adempiere pienamente ai doveri della loro funzione, ma al contempo esercitavano il potere con scelte completamente prive di un qualsiasi spirito di servizio pubblico.
Figuriamoci l'effetto di tutto ciò in un ragazzo che, dagli undici anni ai diciannove, era vissuto tirando la cinghia con madre e sorelle, ripartendo per ogni giorno del mese un trentesimo della modesta pensione lasciata dal padre, un uomo immaginato e idealizzato come integerrimo e teso soltanto al servizio nei confronti della collettività.
Luca si imbatteva in politici, amministratori pubblici, alte cariche istituzionali e vedeva tutti scalare montagne di denaro guadagnato in modo “arcano” senza che nessuno – nell'opinione pubblica – obiettasse qualcosa. Evidentemente avevano ragione loro.

* * *
Non ho dubbi sul fatto che Luca fosse o un ingenuo o un debole. O non capiva o aveva paura di capire. Vedeva in azione perfino eminenti uomini di Chiesa: probabilmente dapprima aveva ricordato certi discorsi della madre, poi si era abituato alla situazione.
Riferiscono che gli capitò di incontrare e di riconoscere tre o quattro ufficiali dell'Arma che erano stati superiori di suo padre (e forse anche suoi): uomini per questa semplice ragione baciati, ai suoi occhi, di una sorta di “santità transitiva”. Se perfino loro si concedevano certe licenze, come pensare che esse non fossero del tutto legittime? Per non parlare poi del giro delle “gallinelle”, vale a dire le ragazze definite così o in altri modi ancor meno eleganti dalla banda. Soubrettine, fotomodelle, aspiranti amanti, attricette eccetera. La corrente ne portava parecchie a galleggiare tra i cerchi concentrici dell'acqua smossa dal sasso (e là dove le onde si allontanavano giravano anche ragazzi). Giungevano inviate dalle altre cordane, dagli amici di produttori cinematografici, da gente nel giro della moda, da organizzatori di “eventi televisivi”.
Nella corte esistevano così le riunioni di serie A – quelle con mogli, figli, rampolli vari, conoscenze da trattare con prudenza – e gli incontri di serie B, più ruspanti. E in questo giro, pur continuando a recitare il copione che la vita gli aveva assegnato, Luca mieteva la sua parte di raccolto. Riaccompagnava a casa le prescelte e le consolava se erano disperate; veniva contattato da ochette che volevano entrare nel giro; distraeva quelle che capivano di aver perso la grande occasione; in qualche caso interveniva in anticipo per evitare traumi alle più ingenue. Molte, tra le frullate fuori dal giro, tra le espulse dalla centrifuga, pensavano che lui fosse, in fin dei conti, l'unico salvabile. Ma accadde anche il contrario: venne considerato il più ipocrita.
In conclusione, per sintetizzare la sua condizione, si può dire che Luca viveva degli avanzi, o dei molti piatti abbondanti intonsi, alla tavolata perennemente imbandita di quella corte di ingordi. “Proci”, insomma. Eroi di una meschina commedia all'italiana, “Ras” di un regime non dichiarato.
Entrare nella psiche di una persona è sempre difficile, spesso impossibile. Ciò detto, viene il sospetto che Luca vivesse la sua situazione in uno stato d'animo per certi aspetti tormentato. Anche se non era affatto un santo, come non ipotizzare che egli si sentisse in qualche modo scisso? O forse Luca non era affatto scisso e stava benissimo così?
A considerare quanto accadde in seguito, i dubbi vengono.

* * *
Forse ogni uomo ha una sua area di fragilità assoluta. Un zona che, se colpita, lo fa crollare di schianto. E magari fino al giorno prima lui appariva solidissimo. Il caso, un banale caso, fa sì che lui venga toccato proprio in quel punto, magari da uno spillo, e lui si abbatte a terra, o esplode rovinosamente.
Luca aveva conosciuto, per caso, la figlia di un giornalaio con l'edicola accanto a un semaforo, poco lontano da una delle abitazioni del capo. Una bella ragazza, simpatica e vivace. Dapprima tra i due erano corse soltanto chiacchiere mentre lui comprava il quotidiano o qualche rivista e lei gli dava il resto. Poi avevano preso un caffè insieme e avevano iniziato a uscire qualche volta. Giorgia presto aveva capito qual era il lavoro di Luca e si era messa a far domande sulle abitudini della casa, sui gadget da miliardari che circolavano tra i signori, sulla gente nota che girava nel gruppo e che lui aveva conosciuto. Soprattutto era interessata, alle banalità relative ai gusti alimentari di alcune facce famose della televisione, oppure alle vicende rosa e ai pettegolezzi di cui non esisteva traccia sui giornali che lei vendeva, o infine allo scoprire attraverso quali passaggi qualche illustre sconosciuta era diventata qualcuno “dandola” a qualcun altro.
Luca si divertiva a vedere la curiosità di lei. Giorgia gli sembrava non soltanto una bella ragazza ma anche una brava ragazza – sia pure un po' troppo incantata dal bel mondo. Aveva conosciuto il padre, aveva incrociato la madre, aveva saputo che lei non era impegnata... Così dapprima aveva iniziato a farci qualche pensiero, poi si era mostrato più premuroso, quindi aveva fatto qualche discorso allusivo, infine era giunto a delle avances. Lei, molto pragmaticamente, aveva fatto capire che per una relazione era disponibile ma che per discorsi più seri bisognava pensarci bene.
Luca aveva tenuto segreta la relazione. Qualche volta i due si incontravano a tarda sera. Ma di solito si vedevano all'alba, prima che arrivassero i pacchi con le copie fresche dei giornali. Proprio in un'occasione simile si erano baciati per la prima volta. E stavano quasi per fare all'amore al riparo del gabbiotto se un pensionato straordinariamente mattiniero non si fosse annunciato da lontano richiamando il suo cane.
Luca forse iniziò a convincersi che Giorgia era la donna della sua vita. Ma accadde un fatto. Talmente banale, nel suo svolgimento, da sembrare insignificante. E invece fu la causa di tutto.
Un giorno, mentre Luca guidava la macchina blindata del capo (dietro di loro, a una trentina di metri, c'era anche la seconda auto di scorta, assolutamente identica alla prima) si fermò al semaforo rosso proprio davanti all'edicola di Giorgia.
Il giovane, al volante, si voltò verso il chiosco per guardarla. Accanto gli sedeva un'altra delle guardie del corpo, uno dei nostri testimoni (che ora lavora all'estero). Giorgia, da dietro le montagne di giornali e di riviste, alzò gli occhi. I due giovani si salutarono con un rapido cenno. Il collega se ne accorse e disse: “Mica male, eh?”.
“Sì, molto carina”.
Il capo sentì lo scambio di battute e alzò la testa dal giornale che stava leggendo. Si voltò a sua volta e guardò la ragazza.
“Davvero una bella fighetta”, commentò, e rise.
Luca non parlò.
Ripartirono.

* * *
I tempi del precipitare di una tragedia reale non sono mai determinati. Nessuna norma o canone ne stabilisce la durata. Le variabili che intervengono nel suo sviluppo sono infinite, e nulla a priori determina necessariamente ciò che seguirà. I nessi causali potranno apparire ovvi al senno di poi. Ma gli scarti temporali, al contrario, risulteranno comunque spesso incomprensibili. Se a teatro le tragedie in genere durano tra le due e le cinque ore, nella vita possono trascorrere molti anni o pochi secondi. Capita che due vicini di casa si ammazzino dopo lustri di litigi; ma la sbronza triste di un uomo tutto casa e lavoro può diventare dramma in pochi istanti.
In questo caso bastarono pochi giorni perché avvenisse l'impensabile. Pochi giorni dopo il fuggevole e banale episodio appena narrato.
Accadde che Luca fu incaricato di accompagnare la famiglia del capo nella località, molto remota, del loro tradizionale soggiorno estivo. Tornò quarantotto ore dopo. Era sera, tardi. Subito gli venne detto che il capo voleva parlargli ma che in quel momento aveva da fare. E così lui si mise ad aspettare fuori dallo studio. Trascorsero una decina di minuti e infine si accese la luce che dava il permesso ai visitatori di entrare.
Credeva di trovarlo solo, una situazione non frequente ma che a volte si era verificata. E invece lo trovò con Giorgia.
Lei si stava rialzando dal divano con la gonna arrotolata fino alla vita e le mutandine abbassate su una delle caviglie: alzò la testa, vide Luca e rimase di sasso, incapace di parlare.
Il capo, visibile di spalle nel gabinetto privato, si lavava nel lavandino con la patta aperta. Si asciugò con una salvietta che buttò per terra e chiuse la lampo. Poi si voltò, uscì e si rivolse subito a Luca chiedendo di riaccompagnare a casa la signorina.
Il giovane non gli prestò ascolto. Chiese a Giorgia perché lei fosse lì. La giovane non rispose e si mise a piangere.
Luca già altre volte aveva raccattato in quello studio delle ragazze dopo delle sveltine con il capo. Le aveva aiutate a rimettersi in ordine e le aveva portate via. Una, in macchina, gli aveva fatto vedere contenta l'assegno appena ricevuto.
Il giovane si voltò, andò dal capo, lo spintonò contro l'armadio e gli mollò una sberla. Quello cadde a terra e subito iniziò a balbettare delle scuse, dicendo di non aver saputo che Giorgia era la fidanzata di Luca. Un errore marchiano dettato dalla paura: se veramente non lo sapeva perché avrebbe dovuto scusarsi?
Luca estrasse la pistola e gliela puntò in faccia.
Quello si inginocchiò e con tono disperato chiese pietà, offrendo di cercare subito un modo per rimediare a quanto era accaduto.
Luca gli mollò due calci.
Poi il giovane si voltò verso Giorgia e le chiese come avesse potuto fare una cosa simile.
Lei continuò a piangere senza rispondere.
Luca premette la canna della pistola contro il cuore di lei.
Lei gli chiese di non ammazzarla.
Luca rimase a lungo immobile. Poi voltò l'arma contro se stesso e se la puntò alla tempia.
A quanto mi è stato riferito da testimoni indiretti disse più o meno queste parole: “Giorgia, vieni via con me... Andiamo via, andiamo lontano... via da questo schifo... Ti prego... vieni con me... per sempre... Se non vieni mi ammazzo”.
E rimase ad aspettare la risposta di lei con la pistola premuta contro la propria tempia.
Lei smise di piangere di colpo e si mise a urlare con rabbia qualcosa come: “No, non voglio venire con te... voglio diventare famosa, hai capito?... Lui me l'ha promesso e tu non me lo puoi impedire! Sono stufa di farmi il culo tutto il giorno... voglio la bella vita, le fotografie... Vattene... fai quello che vuoi!...”.
E si rimise a piangere.
Luca dopo qualche secondo abbassò la pistola, si voltò e uscì dallo studio. Qualcuno lo vide andarsene con l'arma in mano.
Abbandonò la villa, e nessuno chiamò la polizia.

* * *
Ritrovarono il corpo di Luca quattro giorni dopo, in una roggia. Si era sparato vari colpi alla pancia. Non ci furono dubbi che si trattava di un suicidio. E varie prove di laboratorio lo confermarono. Strano modo di ammazzarsi. Di solito basta una pallottola in testa, o al cuore. E invece si inflisse una morte dolorosa.
La madre morì pochi mesi dopo d'infarto.
Nessun giornale scrisse mai che il suicida era stato il capo delle guarde del corpo di quell'imprenditore.
Giorgia divenne valletta in due programmi televisivi e per un paio d'anni fece la madrina in serate presso discoteche e all'inaugurazione di gioiellerie. Poi scomparve dalla scena. Pare faccia qualcosa come la barista.

* * *
I fatti sono questi.
La storia non ha dunque risvolti penali.
Sfido a trovare delle ipotesi di reato verosimili e sostenibili di fronte a una corte di giustizia, anche quella più disponibile del mondo nei confronti della pubblica accusa. Io non ne sono stato capace. Più lavoravo a questa vicenda, più mi irritavo. Forse avredi dovuto avere un atteggiamento differente, e non sentire tanto amaro in bocca. Magari voi la vedete in maniera diversa.
Nei paesi civili i tribunali non sono tenuti a giudicare modi di essere, modalità di comportamento, vizi privati. Per fortuna non sono obbligati (tranne, paradossalmente, nelle dittature) a processare meschinità, amoralità, superbia, sopraffazione e quant'altro si può trovare – posto di essere sensibili a certi temi – in questa storia. La misera umana, quella interiore, non viene perseguita dal codice penale. Dovrebbe essere condannata in altra sede. Altre componenti della società dovrebbero saper indicare – come valori collettivi, come comportamenti esemplari e da imitare – la dignità e l'etica.
Purché qualcuno, anche di questi tempi, anche in questa nostra società, sappia ancora dire che cosa sono la dignità e l'etica.
Io non vedo molte persone capaci di farlo. Spero di sbagliarmi.

(Davide Pinardi)

venerdì 16 marzo 2007

Il Carillon

Il silenzio, quello assoluto.
Poi dei suoni, quelli di un carillon, una melodia metallica e malinconica che ti si insinua dentro come fosse aria.
Ascoltare le struggenti note di un carillon è come respirare, ma a gonfiarsi non sono i polmoni, sono i cuori.


Oggi scrivo a voi, che siate amici oppure sconosciuti visitatori di questo luogo che non esiste, di questo spazio virtuale estensione delle nostre menti e del nostro sentire.
A voi, che leggete, immaginate e forse sorridete ogni volta che qui capitate, chiedo un favore, una cortesia, ho una speranza:


che invece di interrogarvi sul perchè scriviamo e su quali sono i nostri obiettivi e intenzioni, ascoltiate il suono di questa cantilena apparentemente infantile e riflettiate su questo punto: chi ascolta un carillon che suona non si fa domande. Sente.


giovedì 15 marzo 2007

L'ultima volta



C’è sempre una prima volta. Ma a volte c’è anche l’ultima. La prima volta c’è l’ebbrezza della novità, la scarica adrenalinica del rapporto nascente. E l’ultima volta?

Ma chi può prevedere quando sarà l’ultima volta … L’ultima volta che incontri un amico, che incroci lo sguardo di chi hai amato, che ascolti la sua voce … L’ultima volta che entri in una stanza, che telefoni a qualcuno, l’ultimo bacio ?
La vita a volte ci divide. Gli amici cambiano idea, gli amori evaporano, le grandi compagnie si sgretolano, le abitudini, i luoghi cambiano senza però avvertirci, senza darci la possibilità di un congedo onorevole.

Cosa cambierebbe se ci fosse data in dono la possibilità di un addio consapevole, se una vocina ci avvertisse quando quella che stiamo vivendo è inconsapevolmente l’ultima opportunità?
Forse tenteremmo di modificare il corso degli avvenimenti o forse no. Magari ci congederemmo con una frase storica, da ricordare con orgoglio. O forse capiremmo improvvisamente il valore di cose e persone senza dover aspettare il dolore del rimpianto.

Ma per quanto tu possa ascoltare, per quanto tu possa mostrarti attento quasi mai la vocina ti parlerà. Te ne accorgerai quando ormai sarà tardi quando l’unica cosa che potrai fare sarà la reinterpretazione in differita dei fatti, quando l’unica sensazione che potrai provare sarà il fascino misterioso e struggente dell’ultimo ricordo.

venerdì 9 marzo 2007

6 fermate

sono quelle che separano la stazione dei treni dal posto in cui lavoro.
Una decina di minuti, giusto il tempo per vedere salire e scendere alcune figure silenziose e anonime.
E' mattino presto, è ora di fare i conti anche con questo giorno. Ognuno a modo suo.

Una coppia di nonni che non si parlano e che si siedono lontani, ma che sono uniti e affettuosi nei confronti del nipotino assonnato che non vuole andare a scuola, una ragazza triste vestita e truccata di colori sgargianti che trascina degli sgraziati anfibi slacciati.
Un operaio baffuto che guarda fuori dal finestrino come ipnotizzato, con gli occhi fissi che scrutano spazi già visti e un sospiro da padre di famiglia travolto da mille pensieri.
Due bambine e una mamma che ne tiene una terza in braccio, stanca, con un viso segnato dalla vita e dalle sigarette, che salgono tre fermate prima della scuola elementare; spiccano proprio, con i loro zainetti rosa, quegli occhietti timidi e allo stesso tempo indagatori.
Uno straniero con la barba incolta e una busta di plastica che si sveglia ad ogni sobbalzo dopo aver lavorato durante il turno di notte in fabbrica. Vorrebbe essere lontano, forse sogna una casa, la sua famiglia. E invece è qui.
E quella ragazzina che guarda fisso a terra e distoglie lo sguardo appena incrocia il tuo, le hanno sicuramente detto di fare attenzione e di non dare confidenza a nessuno. Brava, fai attenzione.


Saliamo, ci ignoriamo e poi scendiamo senza salutare. Che peccato.

lunedì 5 marzo 2007

Aspettando

Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando ... [silenzio].
Che sia troppo tardi, madame.

Oceano mare
Alessandro Baricco