Una piazza, così ampia da non riuscire a scorgere i lineamenti del viso di chi ti fissa dall’estremità opposta.
E’ un terso e limpido pomeriggio d’inverno e io mi trovo qui, al centro di una città che con la sua frenesia e con il suo isterismo tecnologico ha la capacità di rendere vive non soltanto le automobili ma anche ciò che generalmente, per sua natura, è inanimato.
Questa piazza, sapiente incastro di lampioni retrò, fioriere minimaliste e monumentale eleganza, ha dei polmoni attraverso i quali inspira ed espira aria, ha uno sguardo che annuisce o nega a cadenze regolari e definite.
Già, questa piazza non esiste semplicemente.
Essa vive.
Ma l’unico modo per accorgersene consiste nello spostare lo sguardo dritto davanti a sé, smettendo di fissare il pavimento e le fughe tra una lastra di pietra e l’altra.
Un ragazzino cicciottello, ovviamente sudato e ansimante, rincorre un tram che sembra ignorarlo mentre lotta con il suo zaino, sgualcito e scarabocchiato, penzolante dalle sue spalle svogliato, quasi volesse rallentare l’inseguimento, quasi insistesse per andare nella direzione opposta.
Due sagome oscurate nei volti dal sole splendente alle loro spalle passeggiano lenti fino al centro del quadrilatero per poi abbracciarsi e stringersi in un'effusione coreografata da alcuni passi ispirati ad un lento del quale noi siamo gli unici a non sentire le solenni note.
Dietro di loro una panchina, occupata da un vecchio che fissa da dietro due spesse lenti tre piccioni che beccano freneticamente le briciole cadute dal sacchetto del pane, apatici e ingrati, come tutti gli altri ai quali nella sua vita ha dato da mangiare.
E poi un ragazzo, deve essere un tipo simpatico, scrive a matita sui fogli a righe di un’agenda che nessuno leggerà. Ogni tanto si ferma, accorda un’occhiata al gruppetto vociante di studentesse con gli occhi grandi e le chiome sciolte e, dopo aver regalato un intrigante sorriso ‘omaggio’ torna alla sua opera prima, come se null’altro gli fosse intorno.
Il tempo ha fatto il suo corso, si alza un fresco venticello, mentre il sole cala dietro i lucernai degli edifici le sciarpe riprendono il loro posto intorno ai colli e le cerniere dei giubbotti tornano a sigillare anche il bavero.
Passa un quarto d’ora e gli unici spettatori rimasti durante i titoli di coda siamo io e il castagnaro all’angolo. Avvolto in un fumo bianco e intenso, con le dita annerite, si appresta a sbucciare l’ennesima caldarrosta.
Me ne vado.
Ciò che vive solitamente ha la tendenza a morire.
E la cosa dispiace alquanto.
Vale la pena di porre la questione in altro modo.
Ciò che vive solitamente ha la tendenza a morire.
Nell’attesa di rinascere.
Forse domani.
venerdì 8 febbraio 2008
Vita oltre la sorte
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