Non era mai stato fortunato: sbagliò anche il giorno per morire. Se ne andò all'alba del 28 ottobre 1942, in una corsia d'ospedale. Un errore del chirurgo; disse subito: «Mi hanno ammazzato». Mi consegnò l'orologio con la catena, che era appeso al letto, e mi raccomandò di essere buono, di pensare alla mamma e a mio fratello. Avevo ventidue anni.
Uscendo, fui fermato da un camerata: «Perché non sei in divisa?» mi chiese minaccioso. Gli spiegai che stavo organizzando un funerale, e non gli dissi che avevo qualche difficoltà per i soldi.
È passato mezzo secolo. Non vado mai alla Certosa, non ricordo più nemmeno da che parte è la tomba. Ma sto spesso con lui, più di allora. Ci siamo passati accanto; abbiamo parlato poco, io non l’ho capito. Rivivo certi momenti e ho davanti i suoi occhi spiritati per il lampo delle fotografie, quelle delle ricorrenze: una cresima, mi pare.
Ho visto il mare, la prima volta, dopo le elementari. Colonia della «Decima Legio», Rimini. Balilla. Grado: caposquadra. Se ci ripenso, sento un acuto odore di marmellata gelatinosa, in mastelli. Mio padre venne a trovarmi una domenica, con il treno popolare. Portava camicia, cravatta e giacca. Non si slacciò neppure il colletto. Ci sedemmo in un angolo della spiaggia, noi due soli. Aveva, infilata in una tasca, una bottiglia di birra. «Hai sete?» mi domandò. Io mi vergognavo un poco, i miei compagni ci stavano osservando; era goffo, impacciato, così poco balneare, e dissi di no. «Sei contento?» chiedeva. «Vi divertite?» A me sarebbe piaciuto tornare a Bologna con lui, ma aveva pagato centoventi lire per via delle adenoidi; sembra che l'acqua salata e lo iodio facciano bene, e gli raccontai che avevo vinto la gara di corsa. In valigia c'era la medaglia, con il duce in elmetto.
Ci ripenso: a casa mia non stavamo tanto male. Non ci mancava nulla: tutto, diciamo così, era un po' accomodato. Gola, infiammata: pastiglie uso Valda. Mutande: tessuto misto lino. Liquore: Strega con l'estratto. Bistecca: non proprio una «fetta di carne di manzo», come dice il vocabolario; al bue l'avrebbero potuta togliere anche da vivo, che non se ne sarebbe neppure accorto. Se mancava l'arrosto, mia madre metteva il rosmarino nelle patate, le infilava nel forno e attorno a noi si diffondeva un gradevole profumo da benestanti. Mi sembra, nella memoria, che tutto fosse chiaro: ai giovanetti, come venivano definiti nei manuali di pedagogia, si diceva che il Babbo, la Mamma, il Maestro, il Prete, il Maresciallo non andavano discussi, erano quello che erano: figure, simboli, autorità.
Già: è la prima volta che penso a mio padre senza reverenza, come a un uomo; mi permetto persino di contraddirlo, non sono d'accordo. Poi rifletto, e mi vergogno. Quanti rimorsi, e come mi è mancato. Avrei dovuto volergli più bene. L'ho in mente in divisa fascista: fu iscritto al partito con i combattenti. Era stato un indifferente: non come mio zio Gigi che fece la marcia su Roma per fare un bel viaggio senza pagare il biglietto. Lo nominarono capofabbricato e ne era soddisfatto. Si comperò, nonostante mia madre brontolasse perché li rite&neva costosi e superflui, anche gli stivali ai magazzini «Old England» (Vecchia Inghilterra) che poi si adeguarono in «Nuova Italia». Quando i tedeschi entrarono a Parigi, io a tavola commentai: «È una vera porcata». Lui urlò: «Sei un disfattista». E ci illustrò ancora una volta come aveva visto cadere Baracca sul Montello. Si era «integrato», direbbero adesso. Quel grado rappresentava la sua sola vittoria: da vice, non era mai stato promosso magazziniere. Mio fratello e io, nelle discussioni, tenevamo sempre la parte di nostra madre quando gli diceva: fumi troppo, non andare a fare la partita a scopone, con gli amici non sai importi, non ce la farai mai, queste scarpe che hai voluto prendere da solo, stesso tipo, all'angolo le vendono a metà prezzo.
Una volta, la vigilia di Natale, lo aspettavamo: doveva tornare dal lavoro e, soprattutto, portare l'anguilla. La mamma sosteneva che va mangiata, come l'agnello di Pasqua, per devozione, anche se suppongo che nel mondo zoologico questo senso religioso non sia condiviso. Arrivò, allegro, con un capitone gigante, sembrava una balena, ma era ubriaco: aveva partecipato a troppe manifestazioni augurali. «Che vergogna», disse mia madre «proprio questa notte che nasce Gesù.» Lui ebbe un inaspettato e improvviso lampo di genialità: «È così piccolo che non se ne accorge», e si buttò sul letto. Allora ne fui scandalizzato, ora penso a quella mia severità cretina: scusa, papà.
Sì, suppongo che durante l'agosto del 1934, Biagi Dario, coniugato, con moglie e prole in provvisorio soggiorno presso congiunti montanari, si lasciò andare alle suggestioni dell'ostessa di via Pietralata, la signora Nina, una donnona rosea, paffuta, abbondante, che con un colpo di petto poteva sedare una rissa. Un'ipotesi soltanto, di cui non esistono prove sicure, se non la misteriosa sparizione della catena d'oro dell'orologio, sostituita da un più pratico e meno pretenzioso fermaglio di vile metallo, e di un libretto al portatore della Banca Cooperativa, per l'ammontare di lire venti, che mio fratello si era meritato con un disegno che inneggiava alla bellezza del risparmio. So, con certezza, che rientrammo precipitosamente, che passammo a un regime di economia ancora più rigoroso, che mia madre diventò, per qualche settimana, sempre più afflitta, che io mi fermavo, di nascosto, a osservare la signora Nina, la peccatrice, lieta, disinvolta, che trattava i clienti con affettuose pacche sulle spalle e, confesso, la trovavo simpatica. Ma, in casa, mi associavo al cupo silenzio. Sono passati tanti anni e mi rallegra l'idea che il mio babbo abbia ballato, sia pure per una sola estate.
Siamo vissuti insieme e non ci siamo capiti. Non ci siamo parlati. Cerco le attenuanti: ero tanto giovane, se ne è andato così presto. Ho cominciato a conoscerlo tardi, dopo i funerali. Non siamo stati neppure amici, ma è una pretesa sciocca: non è questo che uno cerca in famiglia. Oggi, le sue sconfitte, le sue debolezze me lo rendono più caro. Vorrei inventargli un'impossibile storia. Sulla spiaggia, con giacca e cravatta, era splendido, composto, elegante come un signore inglese d'altri tempi; certo, ebbe molte avventure, perché piaceva tantissimo alle donne; un simpatico dissipatore, direi; Dio mio, beveva un po'; no, non è morto nella corsia dei poveri, all'ospedale: un banale incidente di macchina. Aveva cinquantun anni. Mi pareva vecchio.
Enzo Biagi “Un anno Una vita”
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venerdì 27 ottobre 2006
Brodo di cultura (in pillole)
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