martedì 24 ottobre 2006

La festa del Cinema di Roma

Roma
foto APT di Roma

La festa del cinema di Roma che si è appena conclusa e che è anche stata la prima edizione, si è rivelata per me una piacevole sorpresa. Le inutili polemiche sulla competizione con Venezia e i suoi "leoni" non hanno senso. Cioè dico: chissene se in Italia ci saranno due festival; se le città famose nel mondo del cinema saranno infine due: si tratta di Venezia e Roma, mica di Boschetto - con tutto il rispetto per la fantasmagorica frazione del chivassese, che fra l'altro ospita un ottimo ristorante sardo.

Comunque dicevo, la festa del cinema. Roma era chiara ma triste. L'organizzazione efficiente. Gli spazi dedicati alle proiezioni principali erano concentrati all'Auditorium a circa mezzora dal centro, immerso nel verde dei "parioli".

Fu Zi è un film emozionante. Si tratta di una vicenda familiare dolorosa e sofferta: una donna che lascia figlio e marito per sposare un uomo più stabile, il marito abbandonato che lotta contro il vizio del gioco d'azzardo, il figlio che non riceve le dovute cure del padre, che anzi lo costringe a rubare. Insomma, dirà qualcuno, soltanto una grande noia. Nient'affatto. All'inizio del film, c'è una specie di lettera del regista - Patrick Tam - in cui scrive che si propone di emozionare il pubblico, di creare un'esperienza emotiva intensa. Francamente pure a me sembrava un po' difficile, anche in considerazione dei centocinquanta minuti di film, oltre che allo stile del cinema di Hong Kong, piuttosto lento e prolisso. Tuttavia, nonostante il mio stesso pregiudizio, sono arrivato a commuovermi - come difficilmente mi succede - sulla veloce sequenza finale dei momenti più belli passati fra padre e figlio (Fu Zi, appunto), sulla quale il figlio "fuori campo" racconta l'epilogo della storia.

The Namesake di Mira Nair invece è un film piuttosto scontato. Ottimo, certo, il tentativo di ricostruire la difficile integrazione di culture diverse, l'orgoglio di un nome e di ciò che c'è dietro. Ecco, forse proprio questo è l'aspetto più interessante del film: il protagonista della storia si rende conto dell'importanza del proprio nome, soltanto quando perde quasi tutto del proprio retaggio: perfino gli affetti più cari. Quel nome, Gogol, in una società come quella americana era troppo ridicolo. Meglio cambiarlo. La globalizzazione, infatti, fa si che pure nelle società più multietniche le differenze culturali vadano appiattendosi. Questa lucida analisi salva il film, che altrimenti colleziona soltanto alcune gag tipiche di una classica commedia americana.

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